la Repubblica, 24 ottobre 2022
Di cosa parliamo quando parliamo di corpo
Dal corpo non si scappa, il corpo è un tema trasversale e sempre contemporaneo: nella sua presenza e ancor più nella sua assenza o nella distanza. Il corpo, che è uno, si moltiplica negli sguardi disciplinari e si ricompone nel loro incontro: è nel diritto e nella salute, nel linguaggio e nell’arte (non solo in quella body), nelle politiche di genere e nelle realtà immersive. Il corpo è tradizione (che si vela o si svela) e innovazione, fino al cyborg. Dunque il corpo è sempre politica, come costruzione sociale, progetto individuale, regolamentazione giuridica.
Su di lui (ma sgrammaticando sarebbe meglio dire su di lei) si scontrano l’autodeterminazione e il controllo. Foucault parlava di biopotere, la sua gestione economica e quella biologica. In una riga, alcune parole chiave: aborto, eutanasia, riproduzione, genere, colore della pelle. «Che ti piaccia o no», recita una poesia di Szymborska, «i tuoi geni hanno un passato politico, la tua pelle una sfumatura politica, i tuoi occhi un aspetto politico».
Il corpo è nelle pratiche dello sport e in quelle alimentari, nella malnutrizione da junk food e nella denutrizione da povertà. Tutti noi, che presto o tardi diventiamo pazienti, abbiamo esposto il nostro corpo all’esame obiettivo, incontrando il corpo del medico che, con il suo indice, lo dico ancora con Foucault, «palpa le profondità». Ma il nostro corpo è anche immagine, nel referto istologico o radiologico, ed è questo il modo impalpabile con cui l’occhio clinico entra in noi.
A volte la burocrazia, non solo medica, si dimentica che siamo un corpo ed è un attimo diventare un insieme di dati, un corpo database virtualizzato e scisso. La filosofia ci insegna (da studente me lo spiegarono, con libri diversi, Borgna e Galimberti) in quanti modi l’uomo (leggiamo pure maschio, tanti testi scritti da donne ce lo chiariscono) ha inventato l’idea di corpo: dalla mania platonica alla lacerazione cartesiana, dalla maledizione biblica alla forza-lavoro marxiana. Con la fenomenologia abbiamo capito la struggente inevitabile distinzione tra corpo Körper come oggetto (per esempio dell’osservazione clinica) e corpo Leib come vissuto (per esempio nell’amore). Spesso il corpo parla quando la parola muore. Chi ha esperienza della cura psichica lo sa. È quando il corpo traumatizzato si nasconde nell’indicibile mentale («il corpo accusa il colpo», scrive lo psichiatra Van der Kolk), quando gridando senza voce la sua protesta si sfigura nel disturbo alimentare, quando simula l’infarto nel momento del panico; o quando, nel disturbo da dismorfismo corporeo, implora la chirurgia di correggere un difetto che non c’è. Il corpo è anche trasformazione: ce l’ha narrato Ovidio nello splendore sgomento delle sue vite metamorfiche e lo raccontano le persone, ormai tante, che si avventurano nel transito, incerto o determinato, solitario o condiviso, della transizione di genere.
Il corpo è la mappa su cui personalità e memoria, gioia e sofferenza, disegnano il loro viaggio. I corpi sono genetici e culturali, agiti e modificati dall’abbigliamento, dalle palestre, dai tatuaggi, dai piercing e dalla chirurgia estetica. Merleau-Ponty diceva che non esiste un corpo naturale ma «un corpo dato». La piel que habito, direbbe Almodovar. E naturalmente il corpo è nel desiderio e nella sessualità. Persi nella rete lo abbiamo ricostruito o abbandonato? Sappiamo ancora che è protagonista dell’innamorarsi?
La pandemia ha messo una lente d’ingrandimento sui nostri corpi: la loro cura e la loro legislazione, il contatto e la distanza. La guerra continua a ricordarci, ma molti fingono di non capire, che siamo corpi che se bombardati muoiono, si smembrano e annegano nel sangue. «Voi non avete visto il sangue e la merda e il fango», scrive Fenoglio. «Andate a vedere la merda e il sangue e il fango e poi parlerete, se ne avrete ancora voglia». Ascoltiamoli, dunque, i corpi, e le loro storie passate, presenti e futuri. Prestiamo orecchio al corpo nel paesaggio, inseparabile da quel “paesaggire” zanzottiano che non è lo sguardo dal belvedere, ma è l’immersione fisica nell’eros della terra. Quanti altri corpi per motivi di spazio devo trascurare: i corpi celesti, il corpo del reato, l’habeascorpus, il corpo letterario e il corpo docente (che finalmente è tornato in aula); la mente
embodied, incorporata nelle strutture del corpo (di tutto il corpo, non solo il cervello) e la mente embedded, in comunicazione continua col mondo. E ancora, l’affective touch, bella espressione che unisce clinici e scienziati nella consapevolezza che l’esperienza corporea è costruita dalla relazione e a sua volta la determina. «La magia ultima dell’attaccamento è il contatto fisico», scrive Daniel Stern, grande ricercatore dell’età evolutiva. «E questa magia passa attraverso la pelle», il più psichico dei nostri organi.