La Stampa, 23 ottobre 2022
Su "Una volta solo" di Mario Calabresi (Mondadori)
È cominciato con una pizza e una birra in Piazza Vittorio, a Torino, quando il giovane cameriere ha detto «cerveza» invece di birra e il cliente gli ha chiesto se era spagnolo. «Argentino», ha risposto con fierezza. E poco dopo anche la ragazza che ha portato il conto ha sorriso in... argentino. E qualche giorno dopo a Rimini è successa la stessa cosa, stessa domanda, stessa risposta: «Argentina!». La differenza la faceva soltanto un fritto di pesce al posto della pizza. Due coincidenze non fanno una prova, ma fanno una storia da raccontare. E così il cliente ha deciso che valeva la pena aspettare, prendersi da parte il giovane e scoprire che un secolo dopo c’è chi fa il viaggio della speranza in senso contrario a quello dei nonni.
Infaticabile cercatore e paziente ascoltatore, Mario Calabresi continua il suo viaggio intorno all’uomo con il taccuino in mano: lui cerca le storie e le storie ormai cercano lui. Questo suo ultimo libro, che esce oggi per Mondadori si intitola Una volta sola e raccoglie le vite di chi ha avuto il coraggio di scegliere. In copertina c’è una figura su un trampolino. Si butta? Non si butta? Si butterà.
È il senso figurato di questa raccolta: «Il coraggio di scegliere, perché il tempo non è infinito, l’inatteso può bussare ogni giorno alla porta e allora vale la pena scegliere».
Dopo aver diretto La Stampa e la Repubblica, Calabresi ha fondato una piattaforma di podcast, Chora Media, ed ha fatto del racconto orale di storie il mezzo e il fine del suo giornalismo. Tutti i suoi libri sono ugualmente marcati da questo timbro, nella convinzione che non c’è evento o fenomeno che non si possa raccontare attraverso il percorso di un essere umano, la grande Storia cammina sulle gambe delle piccole. Bisogna saper vedere i fili che spuntano dal nulla, afferrarli con dolcezza e fermezza, arrivare fino in fondo, dove si trova anche la nostra storia.
E allora torniamo all’inizio, al ragazzo della cerveza che ci porta nel cuore di una famiglia arrivata - tornata - da poco in Italia. Nel 1927, Salvatore Catalano era partito da Raffadali, Agrigento, per l’Argentina, come facevano circa centomila italiani ogni anno. Quelli che tornavano indietro li chiamavano golondrinas, rondini. Salvatore è rimasto, come milioni di altri, la famiglia si è tramandata il suo passaporto, silenzioso testimone dello ius sanguinis che per la legge italiana trasmetteva ai discendenti il diritto di rientrare in patria. Così, novantacinque anni dopo, sua nipote Camila, medico al pronto soccorso in uno dei grandi ospedali di Buenos Aires, ha lasciato tutto ed è arrivata a Torino con il marito Maurizio e i ragazzi: Isabel, José e Juan Augustín. Una tranquilla famiglia, con tutte le abitudini borghesi, compreso l’abbonamento al mitico teatro Colón. «Avevamo una vita che funzionava bene, amici e una bella casa - ha raccontato Camila - ma abbiamo alzato lo sguardo e non abbiamo visto nessun futuro per i figli. Così abbiamo preso una decisione razionale e irrazionale insieme. Non abbiamo paura. Siamo convinti che ce la faremo perché il futuro è qui».
Ecco, hanno scelto: l’incertezza del futuro ha pesato più dell’azzardo della scelta. Calabresi racconta così di aver scoperto l’esistenza di «un flusso costante, silenzioso ma impetuoso di giovani dall’Argentina». Le due città più ricercate sono proprio Torino e Rimini, il passaparola su WhatsApp si chiama K28, dal numero della circolare del nostro ministero degli Esteri che spiega come ottenere la cittadinanza italiana. Tutti i ragazzi sanno cosa significa K28 e su questa sigla si costruiscono sogni».
Percorrere strade nuove, coltivare l’imprevisto. Il viaggio ne è la dimensione più simbolica: la vera strada si trova perdendosi. «Coltivare l’imprevisto - dice Calabresi - è anche la lezione più preziosa che dobbiamo portarci dietro, dopo aver sperimentato sulla nostra pelle qualcosa di inatteso e inimmaginabile come il virus che ha fermato il mondo».
La mattina del 23 luglio 1944, Sami Modiano uscì dalle mura e vide il mare. Non c’era nessuno per strada perché i nazisti avevano fatto suonare l’allarme aereo e finto un imminente bombardamento inglese. Non volevano testimoni. Poi li avevano messi in fila per cinque, con la testa bassa, in totale silenzio. Vietato voltarsi o guardare in giro. Anche il giorno in cui Calabresi incontra Modiano a Rodi non c’è nessun giro, è presto e come ogni mattina Sami ha un asciugamano sotto il braccio, arriva a una piccola striscia di sabbia larga non più di cinque metri, si toglie la maglietta blu, ed entra in acqua, solo, lui e il mare. Nuota mezz’ora.
Per queste viuzze della vecchia Rodi, Calabresi accompagna Sami che gli mostra dov’era il panettiere che faceva i dolci della tradizione ebraica, vede la bottega del calzolaio e quello delle ricamatrici, sente le voci dei mille e 604 ebrei deportati ad Auschwitz, come lui. A 92 anni, Sami mantiene tuttora con chi passa da Rodi l’impegno di raccontare la storia di una comunità che non c’è più, cancellata in un giorno, quel giorno: «Ho giurato davanti alle cinque camere a gas di Birkenau che non li avrei dimenticati».
A chi cerca storie capita di entrare un giorno in una piccola sartoria del centro di Torino per farsi riparare una giacca e affacciarsi sull’orlo di un abisso, che si apre, come sempre, grazie a una semplice domanda: lei da dove viene? «Da un paese antichissimo, una culla di civiltà, vengo da Kabul e ci ho messo una vita ad arrivare qui». È una storia vertiginosa. Abdullah Khaliqi ce l’ha fatta, passando attraverso tutti gli orrori contemporanei, dalla guerra allo scafista ucraino che li ha buttati a mare alla vista della Calabria. Lui ce l’ha fatta, il suo amico Ahmad no. Trentasette ragazzi su cento partiti insieme sono morti per strada. Calabresi gli strappa il racconto a poco a poco, finché il piccolo sarto afghano quasi lo caccia dalla bottega, «Troppo dolore, troppa paura: la mia storia non finisce mai». Ed è la storia infinita di tutti noi.