Corriere della Sera, 24 ottobre 2022
Biografia di Guglielmo II, re di Prussia
Venne al mondo nel gennaio 1859, dodici anni prima che nascesse il Secondo Reich. Suo padre era figlio di Guglielmo I re di Prussia, quel Guglielmo destinato a diventare, nel 1871, il primo imperatore tedesco. Sua madre era figlia primogenita della regina Vittoria. Lui era dunque di origini per metà tedesche, per l’altra metà inglesi. Il nonno Guglielmo I mancò nel 1888, quando il ragazzo aveva già 29 anni. Suo padre, Federico III, regnò per poco più di tre mesi – tra marzo e giugno del 1888 – e morì di un cancro alla gola. A quel punto Guglielmo II salì al trono, meno che trentenne. Aveva alle spalle la stagione trionfale di Otto von Bismarck primo ministro di Prussia dal 1862, quando lui aveva solo tre anni. Ed è all’evidente scopo di liberarsi dell’ingombrante eredità, che nel giro di venti mesi Guglielmo licenziò Bismarck e nominò al suo posto Leo von Caprivi. Atto che non mancò di sorprendere i suoi contemporanei come ha messo in evidenza Franz Herre in Guglielmo II. L’ultimo Kaiser (Mondadori). Tanto più che dopo qualche anno Guglielmo II mise alla porta anche von Caprivi: nei trent’anni di trono, tra il 1888 e il 1918, si consentì di cambiare ben sei cancellieri.
La solidità del binomio fra Guglielmo I e Bismarck, cementata dal carisma di quest’ultimo, scrive Gustavo Corni — in Guglielmo II, l’unico, prezioso libro di uno studioso italiano dedicato a questa figura, di imminente pubblicazione per i tipi della Salerno —, fu sostituita «da un rapporto denso di attriti con i capi del governo da lui scelti, dal balletto di dimissioni minacciate e più volte respinte» di quei sei cancellieri che il Kaiser aveva individuato allo scopo pressoché esclusivo di «farne dei meri esecutori della sua volontà». L’atteggiamento del sovrano, prosegue Corni, «inclinava a imporre il suo potere autocratico», convinto com’era d’avere la facoltà, anzi «il dovere» di rappresentare in tutto e per tutto «gli interessi dello Stato». Convinzione che derivava dalla visione di una monarchia di «legittimazione divina». Ciò che lo invogliava a nutrire disprezzo nei confronti dei partiti e del Parlamento. Ai canali istituzionali tradizionali, Guglielmo «tendeva a sostituire i rapporti amicali». In «chiuse cerchie maschili».
Fu il primo grande personaggio a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento «sensibile al fascino dei mezzi di comunicazione di massa». Si presentava come «sovrano del popolo», era convinto di essere dotato di un carisma superiore a quello di Bismarck, affrontava volentieri faccia a faccia con i suoi pari, si lasciava andare a dichiarazioni pubbliche roboanti, in un contesto di sovraesposizione mediatica destinato a lasciare il segno. Con i suoi atteggiamenti, annota Corni, divenne ben presto su scala internazionale uno dei soggetti preferiti dei caricaturisti e della stampa in generale. Sensibile com’era alle novità del mondo moderno, il sovrano Hohenzollern cercò di sfruttare questa attenzione dei giornali «per rafforzare la propria immagine pubblica». E soprattutto per «soddisfare in tal modo la sua inesauribile vanità». Ma fu anche assai suscettibile. Diede frequenti disposizioni perché la censura intervenisse in applicazione degli articoli da 94 a 105 del Codice penale prussiano del 1871, assai severi verso il delitto di lesa maestà. La rivista satirica «Simplicissimus» nel solo quinquennio 1903-1907 subì ben ventisette confische e alcuni redattori finirono in prigione per aver violato gli articoli di cui si è detto. In ogni caso, sostiene Corni, dal momento della sua ascesa al trono e per almeno un ventennio, nonostante alcune oscillazioni, il sismografo della valutazione pubblica nei confronti del sovrano si attestò sostanzialmente su un giudizio positivo.
Guglielmo II – come documenta ampiamente Paul Kennedy in L’antagonismo anglo-tedesco. Dalla collaborazione all’ostilità 1860-1914 (Rizzoli) – fu piuttosto incline a «provocare» Londra. Il telegramma del 1896, con cui il Kaiser si congratulò con il Presidente del Transvaal Paul Kruger per il valore con cui gli Afrikaaner avevano respinto la spedizione punitiva britannica guidata da Leander Starr Jameson, fu spedito, ad ogni evidenza, «senza ragionare sulle possibili conseguenze», scrive Margaret MacMillan in 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri (Rizzoli). E suscitò nella capitale inglese un’indignazione indescrivibile. Aggravata da quelle che Niall Ferguson – in Il grido dei morti (Mondadori) – definisce le molteplici «espressioni di simpatia dei tedeschi nei confronti dei boeri durante la guerra scoppiata con la Repubblica del Transvaal nel 1899».
Del resto – registra Christopher Clark in I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra (Laterza) – gli storici pressoché all’unanimità hanno biasimato le esternazioni del Kaiser. «Non ci può essere dubbio sul tono e sul contenuto bizzarro di molte comunicazioni personali dell’imperatore», scrive Clark, «per mezzo di telegrammi, lettere, commenti a margine, conversazioni, interviste e discorsi su temi politici interni ed esteri». Anche soltanto «la loro eccezionale quantità è significativa». L’imperatore, nota Clark, «parlò, scrisse, telegrafò, scarabocchiò e inveì più o meno continuamente nel corso dei trent’anni del suo regno».
Nel 1900 a Guglielmo II parve di aver trovato in Bernhard von Bülow un cancelliere all’altezza dei tempi. Ma non accettò mai di rinunciare al proprio protagonismo. Nel luglio 1908, a bordo dello yacht di famiglia, concesse una lunga intervista al pastore e giornalista americano William Hale, nella quale manifestò il proposito di far scoppiare una rivolta in India, di prendere il controllo di Egitto e Palestina, di stipulare alleanze con Stati Uniti e Cina. Tutto con uno spirito assai ostile all’Inghilterra. Non sopportava che la corte britannica manifestasse scarsa soggezione nei confronti della sua autorevolezza. Per sua fortuna, Hale fece trapelare – sia a Londra che a Washington – il senso di quella chiacchierata con l’imperatore e i capi di governo di entrambi i Paesi fecero in modo di impedirne la pubblicazione.
Trascorsero poche settimane e Guglielmo tornò alla carica. Concesse al generale Edward Stuart Wortley l’autorizzazione a far pubblicare sul «Daily Telegraph» la trasformazione in intervista di un lungo colloquio che i due avevano avuto l’anno precedente. E stavolta fu un clamoroso incidente a carattere internazionale. L’esordio di questa chiacchierata consisteva in un virgolettato nel quale Guglielmo sosteneva esser gli inglesi «pazzi, pazzi furiosi, pazzi come lepri marzoline» a non rendersi conto di quanto lui fosse amico del loro Paese. L’imperatore vantava il ruolo da lui avuto in alcuni delicati passaggi della guerra anglo-boera lasciando intendere che la nonna, la regina Vittoria, alla vigilia della morte (nel 1901) considerasse il Kaiser più intelligente del proprio figlio destinato a succederle, Edoardo VII.
Alla luce dell’intervista, scrive Corni, «amici e nemici dell’imperatore espressero in privato, ma talvolta anche in sedi pubbliche, la convinzione che il Paese fosse ormai sull’orlo dell’abisso se a guidarlo in modo così sventato era un sovrano inconsapevole delle proprie responsabilità». Lui scaricò la colpa su Bülow, sostenendo che il cancelliere avrebbe dovuto rivedere il testo dell’intervista prima che fosse pubblicata. Bülow fece lo stesso e accusò di negligenza alcuni suoi sottoposti. Ma si scusò e offrì le proprie dimissioni. Che Guglielmo respinse. Salvo ricredersi alcuni mesi dopo, quando capì l’effetto devastante che avevano avuto quelle sue parole pubblicate sul «Daily Telegraph». I rapporti con Bülow si fecero sempre più tesi, finché in luglio il sovrano lo licenziò sostituendolo con Theobald von Bethmann-Hollweg con il quale aveva in comune una grande passione per la caccia. In quell’occasione Guglielmo disse che era contento di essersi liberato di un «criminale», reo di avergli fatto compiere il passo falso dell’intervista al quotidiano inglese. Nonché di «numerosi altri errori politici».
La Prima guerra mondiale fu per lui una catastrofe. E ancor più il modo in cui, a guerra persa, lasciò il potere. Il presidente americano Wilson si era fatto l’idea che lui stesso rappresentasse un «ostacolo insormontabile» per la soluzione del conflitto. Quando gli venne prospettato il tema delle dimissioni, Guglielmo reagì stizzito dicendo che non avrebbe ceduto alle richieste di «qualche centinaio di ebrei e un migliaio di lavoratori socialisti». Il 9 novembre 1918 fece convocare dal maresciallo Paul von Hindenburg, capo supremo di tutte le forze del Reich, una riunione per ascoltare i trentanove ufficiali più alti in grado in merito a quel che avrebbe dovuto fare. Il risultato per lui fu, secondo Corni, «annichilente»: nessuno dei presenti (con una sola parziale eccezione) spezzò una lancia in suo sostegno.
Quel giorno stesso i tedeschi in rivolta proclamarono la Repubblica. L’indomani Guglielmo, senza darne notizia ufficiale, riparò nella neutrale Olanda. Lasciò la moglie a Berlino; i giornali raccontarono che il Kaiser aveva portato con sé un intero convoglio ferroviario con decine di carri colmi di arredi, opere d’arte e suppellettili. Neanche Hindenburg era stato avvertito della sua partenza. Ad un certo punto del tragitto, Guglielmo, per paura che il treno potesse essere assalito dai rivoluzionari, lo aveva costretto a una sosta e aveva scelto di attraversare il confine su un’auto. Da quel momento restò esiliato in Olanda nel palazzo di Doorn.
La discussione sul suo operato fu riaccesa dalla pubblicazione nel 1921 delle Memorie (Mondadori) di Bismarck (scomparso nel 1898) «fortemente negative nei confronti del giovane monarca». Guglielmo provò a difendersi dando alle stampe le proprie Memorie (Treves), ma «non ottenne il risultato sperato». Il tentativo di autoassoluzione era evidente e però «veniva contraddetto dalle testimonianze di altri grandi protagonisti della sua epoca, fra cui Bülow, il principe Hohenlohe, il generale Waldersee e l’ammiraglio von Tirpitz, ricche di documenti di prima mano». Testimonianze che ridicolizzavano i ricordi del sovrano. Talché il match si concluse, secondo Corni, con una «netta vittoria postuma di Bismarck su chi lo aveva licenziato in modo così sbrigativo».
Nell’ottobre del 1922 Guglielmo si entusiasmò per la marcia su Roma e l’avvento al potere di Benito Mussolini. La riuscita convivenza tra il Duce e Vittorio Emanuele III costituiva per l’ex imperatore la prova che la monarchia era «pienamente all’altezza dei tempi». Guglielmo lesse poi con soddisfazione Mein Kampf di Adolf Hitler, che nel decimo capitolo lo liberava da ogni responsabilità per il crollo dell’esercito tedesco nel 1918. Nel febbraio 1925 morì all’improvviso il presidente tedesco, il socialdemocratico Friedrich Ebert; si tennero le elezioni e fu eletto Hindenburg. Per un breve periodo Guglielmo sperò che l’anziano maresciallo si adoperasse per farlo tornare sul trono. Ma Hindenburg, ancorché convinto monarchico, fu leale alla Repubblica.
Guglielmo da quel momento si avvicinò sempre più a Hitler in concorrenza con il proprio figlio, che cercò addirittura di candidarsi con i nazionalsocialisti alle elezioni del 1932. Hitler, quando salì al potere nel 1933, fece credere all’ex imperatore di non essere sfavorevole ad un suo ritorno sul trono. Ma senza mai compromettersi. L’ambiguo coinvolgimento di alcuni familiari e collaboratori del Kaiser nella «notte dei lunghi coltelli» (1934) convinse il Führer che era meglio soprassedere e lasciare che gli Hohenzollern restassero dov’erano. Quanto a Guglielmo, approvò pubblicamente il golpe di Francisco Franco in Spagna (1936) e, benché fosse apertamente antisemita, criticò, «privatamente», la «notte dei cristalli» (1938). Nel 1939 in occasione degli ottant’anni di Guglielmo, il regime vietò ogni cerimonia di celebrazione, soprattutto nei circoli militari. A sorpresa, anzi, l’ideologo del regime Alfred Rosenberg dichiarò proprio in quei giorni che in Germania la monarchia «era scesa nella tomba con la fuga di Guglielmo II e non sarebbe mai più risorta».
Quando nel 1940 i tedeschi invasero l’Olanda, Guglielmo rifiutò con sdegno l’offerta dei reali inglesi di accoglierlo sul suolo britannico. L’avversione per i cugini di Windsor era più forte di ogni altro sentimento. Allorché i soldati suoi connazionali entrarono nella residenza di Doorn, li accolse con gioia e firmò autografi. Esultò per il ritiro del contingente inglese da Dunkerque e per la caduta di Parigi. Nell’occasione mandò un telegramma di congratulazioni a Hitler che tardò una settimana prima di reagire con una «fredda risposta formale». Ma l’ex imperatore non se ne diede pena: per lui quel che più contava era l’odio per i cugini di Windsor e quella che, scrive Corni, gli appariva come una «sorta di vendetta personale postuma contro l’Inghilterra». Sarebbe morto nel giugno del 1941 nella consolatoria convinzione che Hitler avesse in qualche modo «vendicato» la sconfitta tedesca del 1918. Una convinzione fortunatamente errata.