Il Messaggero, 24 ottobre 2022
Le case ci avvertiranno dei terremoti
Che qualsiasi oggetto in un futuro molto vicino sia connesso, è ormai un’ipotesi più che verosimile. Internet of things sta trasformando ogni elemento in un puzzle della catena digitale, in cui lo scambio di informazioni è continuo. Ma quello scambio ha un’utilità più personale che collettiva, perché ognuno di noi paga un servizio che reputa utile o necessario. Ma se questo paradigma cambiasse? Se domani, ogni oggetto, ma persino la nostra casa, o il nostro stesso corpo, diventassero una parte interattiva della rete, cioè un nodo della rete, cosa cambierebbe? A questa ipotesi visionaria sta lavorando Marina Ruggieri, docente di Telecomunicazioni, presso l’Università di Roma Tor Vergata insieme ad un gruppo di ricercatori.
Com’è nato questo progetto?
«A Tor Vergata abbiamo un centro di ricerca interdisciplinare, dove ci sono medici, ingegneri, fisici, economisti che collaborano insieme e con cui abbiamo cominciato a ipotizzare alcuni scenari futuribili, ma realizzabili. L’idea del corpo umano, come parte di una rete, ci venne in mente quando un gruppo di dentisti ci chiese di poter inserire dei chip nella capsula di un dente, per monitorarne lo stato di salute. Il mio gruppo lavora nelle infrastrutture di connettività, che da qualche anno è inserita tra i nuovi diritti dell’umanità; oltre al diritto all’acqua e al cibo, c’è il diritto di essere connessi, una nuova esigenza dell’essere umano, che sta trasformando le telecomunicazioni».
E questo cosa significa?
«Le telecomunicazioni includono satelliti, cellulari, fibra ottica, 5G, tutti elementi dello stesso mondo che devono parlare tra di loro, per poter garantire una connessione integrata e globale; quindi chi vuole lavorare veramente per il futuro dell’umanità deve raccogliere questa sfida, connettere tutti con una grande rete».
Non siamo già in una rete globale?
«Non proprio. Se portassimo questo concetto all’estremo, chiunque e qualsiasi cosa potrebbe essere un nodo di rete in grado di dialogare, scambiando e ricevendo informazioni, anche perché si sta andando sempre più verso una diffusa softwarizzazione, dove le parti fisiche, l’hardware è sempre meno indispensabile. In questo contesto anch’io, indossando una maglietta con sensori, o facendomi un tatuaggio che trasmette e riceve posso diventare un nodo nella rete di comunicazione».
Ma con i nostri cellulari e device già riceviamo ed inviamo informazioni. Che differenza ci sarebbe?
«Sì, già trasmettiamo e riceviamo, ma non siamo un vero nodo di rete, ma un singolo utente, che usa un servizio per il proprio bisogno e non aiuta la collettività. Faccio un esempio. In caso di pericolo, potremmo scambiare informazioni nel flusso esterno, con un nodo più importante, che coordina le informazioni con un organo preposto a livello nazionale e così saremo parte di un puzzle collaborativo».
Quindi noi umani come parte di un hub di rete. E quali altri elementi avrebbero un ruolo importanti in questo schema?
«Nella nostra idea progettuale, abbiamo inserito tre elementi: ByN che sta per body as a netowrk, cioè il corpo umano. Esistono già studi e prototipazione di piccoli elementi esterni, dei chip, usati per curare patologie o rilascio di medicinali nel corpo; questo significa che negli ultimi anni, c’è un’accettazione all’idea che il corpo umano possa ospitare elementi esterni, pensiamo ai chip svedesi per pagare i biglietti della metro, che ha rotto gli indugi etici. Pensiamo al tatuaggio, è ormai una normalità e se fosse usato come mezzo per trasmettere? Poi c’è RoN, Robot as a network. I robot umanoidi, sempre più presenti nella nostra vita futura, oggi svolgono un servizio solo per il proprietario, non per l’intera rete, ma potrebbero essere un mini-router, quindi il secondo elemento della rete».
Manca il terzo. Qual è?
«Hon, Home as a Network, le nostre case. Dopo il terremoto dell’Aquila, abbiamo messo insieme una piccola task force, pensando all’idea di un mattone con sensori da inserire nelle case per il monitoraggio continuo».
E che ruolo avrebbe?
«La casa ospita già una piccola rete al suo interno. Ci sono la stampante, il wifi, i computer, gli elettrodomestici smart, tv connesse, ma è una rete egoistica, solo per i suoi abitanti. Immaginiamo che potenza potrebbe avere con dei sensori inseriti all’interno, in grado di rilevare lo spostamento del terreno, l’umidità e altri parametri che potrebbero far scattare un primo allarme sismico o idrogeologico, o addirittura sanitario. Potrebbe essere sia un hub di rete che una centrale di monitoraggio della raccolta differenziata, raccogliere dati sull’inquinamento, con un ruolo attivo ed ecologico».
Tutto questo scambio di dati sarebbe un problema non da poco per la riservatezza e la privacy. Già oggi siamo esposti, non crede?
«L’evoluzione del web ci sta portando da una parte a cercare di difendere strenuamente e giustamente la privacy e dall’altra una mancanza della capacità stessa di verificare che la privacy sia effettivamente rispettata. Noi accettiamo già la profilazione dei nostri dati e quindi in realtà siamo sempre a rischio privacy e ci stiamo dirigendo verso scenari molto impegnativi dal punto di vista della sicurezza. Credo però che serva bilanciare il mantenimento della privacy con la possibilità di poter prevenire disastri e salvare delle vite. Noi ingegneri amiamo molto una parola, trade-off, che in italiano significa compromesso, ma non ha un valore negativo, significa bilanciare tutti gli elementi per poi decidere. Che cosa avrebbero dato gli abitanti delle Marche per sapere con minuti di anticipo quello che sarebbe accaduto? I sensori in modo automatico avrebbero trasmesso l’anomalia all’ente preposto ed anticipato l’allarme. Se la nostra idea sarà ritenuta valida per svilupparla servirà un dialogo con l’industria tecnologica e gli operatori di telecomunicazioni».