il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2022
Israele, Netanyahu sogna la rivincita
Benjamin Netanyahu, sconfitto alle urne diciotto mesi fa, potrebbe riprendere la carica di primo ministro di Israele al termine delle legislative del primo novembre? Il ritorno di Netanyahu non è affatto sicuro, come vorrebbero i suoi sostenitori, ma a questo stadio non si può più escludere. Se il suo partito, il Likud, arrivasse in testa alle urne, anche se di poco, davanti al Yesh Atid (“C’è un futuro”), la formazione di Yaïr Lapid, attuale primo ministro, Netanyahu avrebbe tutto il diritto di chiedere al capo dello Stato di conferirgli l’incarico di formare il governo. Non sarebbe la rivincita trionfante che aveva sognato, ma Netanyahu tornerebbe comunque vittorioso a occupare la residenza ufficiale del capo del governo dove ha trascorso quasi quindici anni, dal 1996 al 2021, e che ha lasciato sbraitando contro un complotto che avrebbero ordito contro di lui giustizia, polizia, giornalisti, sinistra e intellettuali.
I due leader della “coalizione per il cambiamento” che hanno preso il potere nel marzo 2021, l’ultraconservatore sionista Naftali Bennett e il centrista laico Yaïr Lapid, sono in buona parte responsabili della situazione, anche se, ovviamente, lo negano: invece di rompere in modo netto con il loro predecessore, in molti settori Bennett e Lapid infatti non hanno fatto altro che riproporre le sue stesse scelte politiche. Di fatto è come se Netanyahu non avesse mai lasciato il potere. A loro modo, Bennett e Lapid stanno quindi legittimando la scelta di una parte dell’elettorato che potrebbe preferire l’originale alla copia. Non c’è dubbio che Bennett e Lapid hanno adottato una pratica più sobria del potere e, a prima vista, più virtuosa di quella portata avanti da “Bibi”, coinvolto in quattro inchieste per corruzione e già comparso in tribunale, nel giugno 2020, per rispondere alle accuse di frode e peculato formulate dai magistrati. Il primo ministro israeliano oggi, oltre a confrontarsi con il problema delle disuguaglianze economiche e sociali, con il carovita e il contesto strategico regionale instabile, deve anche far fronte a una delle ultime questioni coloniali del pianeta. E in questo campo, Bennett e Lapid, per non turbare un elettorato in maggioranza favorevole alla negazione della questione palestinese portata avanti da Netanyahu, non hanno dimostrato una creatività diplomatica superiore alla sua, né un maggiore rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani. Nel tentativo di allentare le tensioni, hanno provato a calmare il malcontento dei palestinesi dissimulando la crisi sotto una fugace illusione di prosperità, distribuendo decine di migliaia di permessi di lavoro in Israele e negli insediamenti agli abitanti di Gaza e della Cisgiordania. Hanno anche facilitato l’ingresso e la distribuzione degli aiuti finanziari del Qatar e accelerato le operazioni per il trasferimento all’Autorità palestinese dei dazi doganali riscossi dall’amministrazione israeliana sulle importazioni ed esportazioni palestinesi. Ma i negoziati politici con i palestinesi si sono arenati, mentre l’occupazione dei territori palestinesi continua e gli insediamenti si allargano, con la partecipazione attiva dell’esercito israeliano, che ha continuato, nella più totale impunità, a respingere i palestinesi e a distruggere le loro case. Circa 90 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio dell’anno, tra cui la giornalista palestinese-americana Shireen Abou Akleh, colpita lo scorso maggio da un cecchino israeliano, a Jenin. Omicidio su cui lo Stato maggiore non ha ritenuto necessario aprire un’inchiesta. Come stupirsi dunque che gli “arabi israeliani” – cioè i palestinesi che vivono in Israele e che rappresentano circa il 20% dell’elettorato – siano oggi riluttanti a partecipare allo scrutinio del primo novembre? Ai loro occhi la “coalizione per il cambiamento” non ha fatto altro che preservare la continuità.
La politologa Dahlia Scheindlin ha ricordato che nel 2020 l’affluenza alle urne nelle città “arabe israeliane” è stata vicina al 70%, come nel resto di Israele, e che i partiti che rappresentano i palestinesi di Israele avevano ottenuto 15 seggi alla Knesset presentando una lista unitaria. Ciò aveva consentito al “blocco anti-Netanyahu” di ottenere 61 deputati. Ma Scheindlin ha anche ricordato che oggi, come predicono i sondaggi, il tasso di partecipazione al ballottaggio rischia di non superare il 40%: in questo caso, il numero dei deputati che rappresentano la minoranza araba tra un mese potrebbe non essere superiore a otto. In queste condizioni sarebbe difficile costituire una coalizione maggioritaria anti-Netanyahu. “Non è solo per solidarietà con i “fratelli” in Cisgiordania e a Gaza che i nostri elettori rischiano di astenersi – avverte un ex parlamentare “arabo israeliano” -. Per molti di loro è anche, o soprattutto, perché i governi Bennett e Lapid non hanno mantenuto le promesse fatte”. Per ottenere i voti della minoranza araba, i due dirigenti si erano infatti impegnati ad approvare una “legge sull’elettricità”, che prevedeva il collegamento di tutte le località arabe in Israele alla rete elettrica nazionale, che però ancora non è stato fatto, a quasi 75 anni dalla nascita dello Stato. La legge è stata adottata, ma il piano di investimenti deciso è troppo modesto per poterla applicare. Allo stesso modo, non sono stati ancora avviati i programmi per la costruzione di infrastrutture collettive e per la lotta all’insicurezza e alla criminalità, che erano stati a loro volta promessi. “Il risultato – conclude l’ex deputato -, è che nei villaggi dimenticati continuano a moltiplicarsi gli allacci abusivi alla rete elettrica, molto pericolosi, mentre i bambini continuano a fare i compiti al buio. Alla fine, destra, centro o laburisti è la stessa cosa. Nessuno ha dimenticato che Yitzhak Rabin era primo ministro nel 1976, quando la repressione di una manifestazione contro la confisca delle nostre terre fece sei morti e che quattordici persone furono uccise quando la polizia, sotto il governo di Ehud Barak, aprì il fuoco, nel 2000, sui manifestanti che protestavano contro la visita di Ariel Sharon sulla Spianata delle moschee. Forse ha ragione Mansour Abbas quando dice che il miglior alleato dei palestinesi di Israele è quello da cui possiamo ottenere i maggiori benefici politici. Netanyahu o chiunque altro, non importa”. Leader del partito islamista Ra’am, Mansour Abbas è viceministro per gli affari arabi nel governo Lapid. “È un uomo pragmatico. Ritiene che, se gli arabi vogliono esercitare un’influenza, devono far parte della coalizione di governo. Qualunque essa sia”, osserva Salwa Alinat, autrice di una tesi sul movimento islamico in Israele.
Il pragmatismo
di Abbas e dei suoi sostenitori, insieme alla delusione e all’astensionismo della maggioranza dell’elettorato arabo, può dare la vittoria a Netanyahu? Se la maggioranza ebraica dell’elettorato resta indecisa, se gli ultra ortodossi e la classe media, che di solito votano per il centro, si astengano o disperdano i loro voti, è logico che anche un piccolo spostamento del baricentro politico della minoranza araba può fare la differenza sul voto. Secondo Alon Pinkas, analista politico al quotidiano israeliano Haaretz, Netanyahu avrebbe dalla sua parte in questa lotta incerta un fattore finora trascurato dai suoi oppositori: lo spostamento verso gli estremi dei partiti di centrodestra che legittima l’ultra destra antidemocratica. Come è successo anche in Italia o in Svezia. “Oggi, in Israele – osserva Pinkas – molti responsabili della destra applaudono per la vittoria di un partito neofascista in Italia, ammirano l’ungherese Viktor Orbán e adorano l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump”. Il che potrebbe favorire un politico nazionalista, autoritario e populista come Netanyahu. Gli elettori israeliani hanno meno di un mese per decidere se vogliono rimettere di nuovo il potere nelle mani di un uomo alle prese con la giustizia, che non ha riconosciuto nessuno dei reati commessi e che ha fato di Israele uno Stato di apartheid. Un uomo che l’ex presidente Usa Barack Obama, come ha rivelato un documento declassificato, considerava nel gennaio 2017 un seguace del “putinismo”, così come il presidente turco Erdogan, l’ex presidente filippino Duterte e Donald Trump.
(Traduzione di Luana De Micco)