il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2022
Il nuovo patto di stabilità
È in arrivo di qui a metà novembre la nuova governance economica e finanziaria dell’Ue: diciamo, molto all’ingrosso, il nuovo Patto di Stabilità e Crescita. A Bruxelles se ne parla più o meno dall’inizio della pandemia, ora è il momento di quagliare: il problema per l’Italia in generale e Giorgia Meloni in particolare è che nella ratio di fondo il nuovo Patto di Stabilità pare assai simile a quello vecchio, cioè uno strumento di governo politico dell’economia basato su presupposti fallaci e ammantato di necessità tecnica.
Fino a che la Commissione europea, all’esito dei suoi colloqui matti e disperatissimi con le varie delegazioni, non presenterà il suo progetto è inutile perdersi in troppi dettagli: peraltro, quando il progetto di riforma sarà presentato, partirà la sarabanda delle trattative casa per casa a Ventisette per arrivare a un testo definitivo, sperabilmente entro l’anno prossimo (dalla pandemia e fino al 1° gennaio 2024 l’applicazione del Patto è parzialmente sospesa).
In linea generale, come ha sostenuto il commissario Paolo Gentiloni giorni fa, ci si dovrebbe “orientare verso piani macro-finanziari a medio termine che stabiliscano percorsi di spesa netta per diversi anni e siano coerenti con la convergenza del debito verso livelli prudenti” e che “potrebbero anche includere investimenti e riforme che riflettano le priorità nazionali ed europee” sul modello dei Pnrr nazionali.
Tradotto: via il bric-à-brac delle regolette numeriche che poi alla fine non rispettava nessuno, probabilmente via anche l’infernale meccanismo del Pil potenziale e dell’output gap come pure l’inapplicabile regola della riduzione del debito di un ventesimo l’anno dell’eccedenza rispetto al 60% del Prodotto. Gli Stati dovranno contrattare con Bruxelles un piano pluriennale con obiettivi “ragionevoli” sul calo del debito pubblico e la dinamica della spesa rispetto al Pil: di fatto, una politica di bilancio accorta – che per alcuni Stati tipo l’Italia potrebbe persino comportare della cara vecchia “austerità” – da legare come segno di buona volontà a impegni “politici” di dettaglio (ad esempio le liberalizzazioni) e alla condivisione di obiettivi “europei” altrettanto precisi (in che modo realizzare la digitalizzazione o la transizione verde). La spesa corrente, ovvero la sua riduzione, resterà il bersaglio principale: potenziare la P.A. anche recuperando il personale perso in vent’anni (sanità, istruzione, etc) risulterà assai difficile.
È questo il contesto, politico-ideologico se non ancora regolatorio, che Meloni e il suo ministro Giancarlo Giorgetti si troveranno davanti dal primo giorno di governo. Anche qui non è il caso di perdersi in decimali, anche perché se quella sarà la dimensione del suo sforzo il nuovo governo partirà già zoppo. Meloni ha bisogno di soldi, parecchi soldi, e ne ha bisogno in deficit per fare due cose: 1) alleviare il conto per imprese e famiglie in un Paese già in recessione per gli effetti della crisi energetica e della conseguente ondata inflattiva (non perdere altra base produttiva); 2) iniziare a realizzare anche solo un po’ il suo programma elettorale.
Il dibattito sulle regole da cui siamo partiti testimonia che a Bruxelles non sono propensi a concedere “scostamenti” di sorta: alla nuova premier italiana viene semmai indicata la via del piccolo cabotaggio di bilancio già intrapresa dal suo predecessore Mario Draghi. Di grandi minacce non c’è bisogno: il rapido rialzo dei tassi – intrapreso e non concluso dalla Bce contestualmente alla fine dei vari programmi di acquisto titoli – spinge alle stelle il rendimento del debito e funziona perfettamente come camicia di forza. Di fieno in cascina, peraltro, ce n’è assai poco: a settembre sul conto del Tesoro c’erano disponibilità liquide per 46 miliardi e mezzo, meno della metà rispetto ai 94,7 miliardi di luglio.