il Giornale, 23 ottobre 2022
I segreti di Philip Roth
Premessa: come sottofondo musicale di questo articolo, non immaginate il klezmer. Philip Roth ascoltò questo genere di musica tradizionale ebraica solo intorno ai sessant’anni e perciò, dopo aver visto il documentario della Bbc dedicato a sé stesso (Philip Roth Unleashed) si lamentò con l’amico e produttore Alan Yentob: «Con quella tua musichetta coi violini trasmetti l’idea sbagliata». Per raccontare la sua infanzia nel quartiere di Weequahic, Newark, New Jersey, sarebbe stato molto meglio qualche classico dal jazz di Billy Eckstine o dal bebop di Sarah Vaughan...
Ed ecco che, fin dalle prime pagine di Philip Roth. La biografia, che arriva ora in Italia, pubblicato da Einaudi (pagg. 1046, euro 26; traduzione di Norman Gobetti), dopo le traversie affrontate in America dove, di fronte a un’accusa di molestie sessuali nei confronti del suo autore, il primo editore aveva deciso di ritirare l’opera, Blake Bailey mette subito in chiaro un concetto che ribadirà per tutto il suo lungo, meraviglioso, dettagliatissimo ritratto dello scrittore, costato quasi dieci anni di lavoro: Philip Roth, nato su suolo americano (a Newark, appunto, il 19 maggio del 1933) e morto su suolo americano (a New York, il 22 maggio 2018) non era uno «scrittore ebreo», o uno «scrittore ebreo americano», bensì uno «scrittore americano» e basta. Di più: «un americano», cresciuto col mito di lavorare sodo per fare finalmente parte della classe media e cresciuto, anche, sui campi da baseball, lo sport nazionale che era la sua passione (e a cui poi renderà un omaggio beffardo in Il grande romanzo americano).
Va detto che la relazione instaurata da Bailey medesimo con Roth meriterebbe a sua volta un libro, visti gli accenni nei «Ringraziamenti» finali: «Quella prima estate passai una settimana in Connecticut, intervistandolo per sei ore al giorno nel suo studio. Ogni tanto facevamo una pausa per andare in bagno, e sentivamo, attutito attraverso la porta, l’uno il fiotto dell’altro. Un bellissimo pomeriggio assolato sedevo sul divano del suo studio, ascoltando il nostro più grande romanziere vivente che si svuotava la vescica, e pensai che nessun biografo letterario americano avrebbe potuto chiedere di meglio».
Però insomma, ripartiamo da quel «nostro più grande romanziere vivente» che è, a sua volta, una citazione da Roth medesimo, che il 25 dicembre del 1997 si sentì chiedere dall’altro lato di Columbus Avenue: «Lei è il più grande scrittore americano?». Al che lui precisò: «Vivente». Se quell’«americano» e basta centrava nel segno, è anche vero che Newark, la Newark delle famiglie ebree americane, è in realtà il centro delle opere di Roth, e proprio la rappresentazione minuziosa, e a volte scandalosa, di questa realtà è costata allo scrittore, per tutta la vita, l’opposizione di larga parte del mondo religioso ebraico e l’accusa paradossale di antisemitismo. Ma tant’è, come aveva scritto a margine di Lettera al padre di Kafka, l’autore che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita nelle sue letture e nei suoi insegnamenti universitari, oltre che come nume tutelare nella sua battaglia in difesa degli scrittori cecoslovacchi, da Klíma a Kundera, le origini sono le origini: «La famiglia come fucina del carattere. La famiglia come decisiva influenza primaria. Interminabile rilevanza dell’infanzia». E quindi, nel suo caso: Bess, la madre, il cui ordine e pulizia in casa erano «leggendari»; Herman, il padre, con i suoi «consigli in stile Polonio» che lo imbarazzava eppure scoppiava di orgoglio per i successi del figlio; Sandy, il fratello maggiore, adoratissimo, a cui Philip stava così appiccicato da rischiare di finirgli «dritto su per il culo». Fra di loro c’erano tanto affetto, e una radio, che tenevano sul comodino (per ascoltarla di sera, a luci spente e a volume basso), come Philip avrebbe poi fatto per tutta la vita. Quando Bess, Herman e Sandy muoiono, tocca a Philip preparare il discorso d’addio. E poi confesserà di parlare con i genitori morti, e di pregare, qualche volta anche abbracciando gli alberi nell’amato Connecticut. Amato soprattutto perché gli garantiva la solitudine giusta per lavorare. «Malamud ci dà sotto già da due ore» diceva alla sua amante di allora, Barbara Sproul, ed erano le 9 del mattino...
Donne, fidanzate, mogli ed ex mogli (due: Maggie Martinson e l’attrice Claire Bloom), amanti, flirt, avances, approcci all’iperuranio delle celebrità, da Jackie Kennedy («Non ero all’altezza») a Nicole Kidman, da Mia Farrow a Ava Gardner (la quale, saputo che lui è di Newark, gli dice: «Sono stata sposata con uno del New Jersey», intendendo Frank Sinatra)... Il mondo sentimental/sessuale di Roth è una fonte quasi inesauribile di aneddoti, giudizi (e pregiudizi), storie che si ritrasformano in romanzi e romanzi che diventano fatti: uno su tutti, l’episodio cruciale dell’inganno di Maggie che, grazie a un finto test di gravidanza, riesce a farsi sposare; bugia che Roth impiega una serie di romanzi a metabolizzare, fino a esorcizzarla in un pianto liberatorio nell’autunno del 1973, quando scrive le righe finali di La mia vita di uomo.
Le parti più succulente della biografia sono però quelle relative al mondo letterario: le lamentele di Roth con agenti e case editrici, i suoi passaggi da un editore all’altro e da un editor all’altro (uno dei quali, Joe Fox, viene licenziato via lettera, spedita però non a lui...), il suo tergiversare (per esempio con l’amico e editor Aaron Asher, che vorrebbe portarlo con sé alla Harper & Row, ma si vede «sfruttato» per un annetto, fino a che Roth decide di rimanere alla Farrar, Straus e Giroux con il nuovo editor David Rieff, figlio di Susan Sontag), la sua attenzione al denaro, alle percentuali e agli anticipi, il «distacco» che manteneva verso chi gli era «utile» professionalmente, almeno nelle parole del boss di Random House... Insomma: «Non mi fidavo di nessuno». Però anche qui, come con le donne, e specialmente con certe amiche di una vita, come Judith Thurman, aveva le sue debolezze e i suoi attaccamenti: dopo qualche anno era finito fra le braccia di Andrew Wylie, comunemente noto come «lo squalo», che definiva «l’agente perfetto e un buon amico» e aveva trovato una lettrice perfetta in Roslyn Schloss, la sua «arma segreta», che tenne un fax solo per lui fino al 2007, quando, finalmente, Roth si convinse a usare internet e l’e-mail. E poi, testimone Schloss, la sua nota ossessività: «Scriveva quattro o cinque stesure per ogni singolo romanzo (le prime stesure sono terribili), rigirando ogni volta le frasi; alla fine faceva avere la penultima (in genere) stesura a cinque o sei lettori». E poi era la volta dei giri di bozze: «All’improvviso, e solo grazie al cambiamento di formato, possono balzarti agli occhi debolezze di pensiero, eccessi descrittivi, errori di stile e anche di concezione». Quando Schloss vide i manoscritti di Balzac pieni di note si disse: «Questo non è niente». Almeno, rispetto al suo miglior cliente.
E poi i rapporti con gli altri scrittori: dall’avversione (ricambiata) per Capote alle incomprensioni con Malamud, da Rushdie («un grande narratore» e, anche, «uno stronzo interessante») all’amico Norman Manea, che aiutò in ogni modo nel suo trasferimento in America, dalla suscettibilità di Kundera all’adorazione per Saul Bellow (che una volta provò a passargli sui piedi con le ruote dell’auto...), dalle critiche di Tom Wolfe al duello quasi tarantiniano con Norman Mailer in uno studio legale, dal fascino di Edna O’Brien al testa a testa con Updike, dalla rivalità bonaria con DeLillo all’intesa scattata con Primo Levi. E, ovviamente, i premi, dal National Book Award a 26 anni per Goodbye, Columbus al Lamento di Portnoy ignorato (ma che è il più grande successo di vendite nella storia di Random House), dal Pulitzer «rubato» (Lo scrittore fantasma fu sconfitto da Il canto del boia di Mailer) a quello finalmente ottenuto per Pastorale americana. Fino, ovviamente, al Nobel mai dato.
Nonostante i numerosi «si fottano!», certamente lo avrebbe desiderato, visto che alla narrativa aveva dedicato tutta la vita, perfino quando i dolori alla schiena non gli permettevano più di stare seduto e, per scrivere, si era procurato una postazione in piedi. «Siamo dei bifolchi – diceva -. Ed è proprio perché siamo dei bifolchi che siamo diventati tutti così sofisticati». Gente che prende appunti perfino a un funerale, come fece Roth a quello della madre: gli sarebbero serviti per scrivere Patrimonio, ma aspettò che il padre morisse, prima di pubblicarlo. Gente che prova a imitare Kafka (Il seno) e si scrive le interviste da sola (per la Paris Review...). Gente che non tollera imposizioni, né dai rabbini, né dal politicamente corretto, né dalla politica. Bifolchi che, nel caso di Roth, Harold Bloom infila nel suo Canone occidentale con sei dei suoi trentuno romanzi. Bifolchi che dicono: «Mi amano! Dove ho sbagliato?». Bifolchi la cui vita finisce nei libri, come mostra magistralmente Bailey per tutta la biografia, ma anche viceversa, che si inventano libri per raccontare altre vite. Che vanno dallo psichiatra, ma per l’Arte scelgono di corteggiare i propri vizi, anziché le cosiddette virtù.
E per i quali la Letteratura è tutto: «Scriviamo di continuo versioni fittizie della nostra vita, – diceva Roth, – storie contraddittorie ma intrecciate l’una all’altra, e queste storie, che siano falsificate in modo raffinato oppure grossolano, costituiscono la nostra presa sulla realtà e la cosa più vicina che abbiamo alla verità». Assolo di tromba.