Corriere della Sera, 21 ottobre 2022
Su "Tasmania" di Paolo Giordano (Einaudi)
«Chi ha bisogno di punirsi trova occasioni dappertutto»: è l’incipit di «A fin di bene», un racconto di Primo Levi contenuto in Vizio di forma, ma potrebbe aprire anche Tasmania, l’ultimo romanzo di Paolo Giordano in libreria da martedì 25 ottobre. Con Levi, Giordano condivide molte cose: oltre alla città d’origine (Torino) e alla casa editrice (Einaudi), soprattutto una poetica influenzata dagli studi scientifici, e l’idea che la letteratura serva a formulare la realtà, mettendo ordine con le parole a ciò che nei pensieri è disorganico. Nel caso di Tasmania, questo tipo di sguardo, lucido ma impaurito dal caos, si spalanca sui molti modi in cui il nostro mondo sembra star finendo. E su come un uomo di quarant’anni, borghese, colto e riflessivo, possa avere la sensazione di finire insieme a esso, incarnando un’epoca e l’universo. Perché chi vuole condannarsi, parafrasando Levi, oggi ha l’imbarazzo della scelta.
Dentro Tasmania c’è un ritratto abbastanza esaustivo del presente: il terrorismo, la crisi climatica, quella economica, le differenze in termini di priorità politiche tra una generazione e l’altra e «più in generale uno spirito del tempo nuovo (qualunque cosa significhi) che si affacciava al mondo, facendo sentire ognuno segretamente colpevole». Ma anche «una contiguità mai sperimentata tra le nostre vite e una nuova forma di male assoluto [...] che sbocciava qua e là nel continente come un fiore marcio». Un’ottima formulazione, appunto, di ciò che pensiamo o ripetiamo quasi tutti: il mondo si è inceppato, forse rotto. E sebbene sia difficile stabilire con esattezza quando e perché — nulla si crea, nulla si distrugge ecc. — è piuttosto facile ripercorrere il tracciato delle crepe, e ricordare dove fossimo la sera del 13 novembre del 2015, mentre da Parigi giungevano le prime notizie dell’attentato al Bataclan; o quale interlocutore generalmente affidabile ci abbia sorpreso, negli anni successivi, con commenti antiscientisti, o negazionisti. Il problema è che sfruttare i propri aneddoti per fermare un’epoca, provare a interpretarla e farsene intellettualmente carico è un lavoro che va oltre la buona memoria e la capacità di osservazione, e persino al di là del talento; è una missione per pensatori al contempo individualisti e generosi, sia emotivi che concreti, naturalmente frammentati. Gente come Paolo Giordano, a quanto pare, che in Tasmania riesce a sovrapporre una frattura interiore a quella collettiva — e a misurare la profondità di entrambe — senza risultare arrogante, ma anzi rivelandosi sorprendentemente umile e insicuro, grazie a una prima persona che dice di sé: «non capivo niente dei miei desideri, a quarant’anni non era normale, no?». E ancora: «mi sentivo […] sterile, scippato del futuro», «in colpa verso qualcosa di indefinito. Verso il dio delle occasioni da non perdere forse, un dio che ero particolarmente bravo a deludere».
Che il suo modo di dire «Io» fosse in crisi, e cioè in evoluzione, era chiaro già nel 2020, quando in un diario-pamphlet intitolato Nel contagio si augurava di non perdere «ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi». Quel libro anomalo, ponderato ed estemporaneo insieme, mostrò i primi pilastri di un ponte che, dalla vita e dalla scrittura di prima, avrebbe condotto a oggi, e a Tasmania. Sulla riva abbandonata, a salutare col fazzoletto, c’era Divorare il cielo — il romanzo più ambizioso, e per certi versi il più interessante, di una carriera in rewind, partita dal traguardo e proseguita con un fruttuoso addestramento. Lì, il personaggio di Teresa leggeva il disagio di tutti nell’inquietudine di uno, il suo compagno Bern, intenzionato a precedere l’apocalisse distruggendosi per conto proprio; in Tasmania, un protagonista indistinguibile dall’autore ammette che l’apocalisse è già iniziata, e prova a conviverci zigzagando tra i detriti.
Il motore della narrazione, non a caso, è la stesura di un libro su «dei fatti accaduti in Giappone settant’anni fa di cui non interessa più niente a nessuno», e cioè sulla bomba atomica. Cosa che rende Tasmania un romanzo-compulsione, un tentativo di catarsi edificato sui paragoni: il «flash» su Hiroshima e Nagasaki contro il gradualismo che accompagna, peggiorandone le sorti, il surriscaldamento globale; i sopravvissuti giapponesi nell’agosto del 1945 versus gli ancora-vivi di oggi. Dall’epicentro del confronto, Giordano scruta persone, cose e ricchezze immateriali che rischiano di essere incenerite: un amico idealista che battaglia legalmente con l’ex moglie per la custodia del figlio; un prete innamorato; un fisico incattivito dal negazionismo; la vista, per l’insorgere di una cataratta precoce; i momenti che offrono una definizione di paternità; la propria reputazione di intellettuale puro, marito appagato, confidente sincero; la versione più compatta possibile di sé, dietro cui continuare a nascondersi.
Ma se l’Io fittizio crolla e si frantuma, quello reale, o quantomeno quello pubblico, registra un ottimo risultato: Tasmania è un libro bello e importante, forse il romanzo definitivo su quel che ci sta succedendo e non riusciamo a spiegarci. I presupposti perché lasci un segno ci sono tutti. Tanto per cominciare, pur parlando di confusioni e sguardi offuscati, è nitido: chiaro per parole e andatura, centrato nelle intenzioni e nei ragionamenti, luminoso, a fuoco. L’asprezza del contenuto, poi, è levigata dalla dolcezza della forma, che Giordano modella con il consueto altruismo perché il risultato sia un’esperienza di arricchimento ma anche, e soprattutto, di piacere. Infine, si incunea in una tendenza che riscontra molti consensi, quella dell’auto-fiction alla Emmanuel Carrère, pendendo però più dal lato dei fatti che verso un’interpretazione personale e ombelicale degli stessi. Anzi, la forza di Tasmania è la polifonia di opinioni, reazioni, ossessioni e confessioni registrate dal protagonista — che quando gli chiedono quale dei cinque sensi preferirebbe salvaguardare dovendo perdere all’improvviso gli altri quattro, risponde, guarda caso: l’udito.
Giordano fa rintoccare l’attualità da tutte le campane possibili — uomini e donne, adulti e adolescenti, gente di fede e di scienza, Notre Dame e San Pietro — usando per ognuna lo stesso percussore: la parola «contro». «Tu sei contrario allo spreco, lo capisco e lo rispetto. Ma io sono contraria all’infelicità», dice Lorenza, la moglie del narratore, reagendo a uno scrupolo ecologista di lui — «c’era proprio bisogno delle fragole fresche ai tropici?, della San Pellegrino in plastica?» — sollevato in un momento inopportuno, una vacanza ai Caraibi. Le fa eco Jacopo Novelli, il fisico-star intorno a cui ruota buona parte della trama (e che offre molte perle: il senso del titolo Tasmania, ad esempio, o la definizione, per l’epoca in cui viviamo, di «tempo pre-traumatico»). «Non esistono più delle vere differenze politiche» dice, liquidando una discussione sulla destra e la sinistra in Italia, «esiste solo l’essere pro o contro la verità». In entrambe le frasi, questa di Novelli e quella di Lorenza, si fa un uso corazzato dell’avversione, come se il «Contro» e per estensione i «Mai» e i «No» fossero gli unici strumenti rimasti a poterci definire, differenziare, proteggere dall’oblio e dalla coercizione. Ma è davvero così pericoloso lasciarsi confondere e turbare, perdersi a volte nelle opinioni altrui? Non servirà forse a esplorarsi meglio, a trovare in sé qualcosa di chiunque, e avanzare più empatici verso una riconnessione del tessuto sociale, un benessere condiviso senza paure? Il cammino che guida Paolo Giordano dal 2015 (attentati a Parigi) al 2022 (reagire al Covid) è una piccola passione intellettuale volta a liberarsi dei «contro», dei «Mai» e dei «No», soprattutto quelli che dice a se stesso: «Per quanto tempo ancora avrei resistito come scrittore raccontando solo di ambizioni e di esperienze mancate? Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere?».
Forse per questo, perché l’autore è infine riuscito nel suo intento, Tasmania è un libro sulla vita, e della vita; se non di Paolo Giordano, di qualcuno che come lui ha tra i trenta e i cinquant’anni in un tempo pre-traumatico, ed è contrario all’infelicità. Molti di noi, cioè, che oltre a quelle per punirci cerchiamo occasioni nuove. Dappertutto.