il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2022
Biografia di Gianni Di Gregorio raccontata da lui stesso
Domanda all’ufficio stampa di Astolfo: “Che tipo è Gianni Di Gregorio?”. Lei sorride, prende un secondo di respiro, cerca aggettivi e descrizioni efficaci, poi si arrende all’evidenza: “È esattamente come il protagonista del film: una persona carina, disponibile, come poche ce ne sono”.
Gianni Di Gregorio è un uomo senza false architetture, false costruzioni, botox mentali o maquillage vari. È realmente come appare: un uomo di 74 anni con un’alta capacità di stupirsi, un ego non ipertrofico e un’indole mite. Sullo schermo porta sempre storie reali, magari vissute in prima persona, narrate con toni lievi, colori pastello. Così nel suo esordio, Pranzo di Ferragosto, così in questo suo ultimo, Astolfo, dove due settantenni, lo stesso Di Gregorio e Stefania Sandrelli, scoprono l’amore e le bizze dei figli. “È un film allegro, spensierato. Mi meraviglio di me”.
Perché?
È nato durate il primo lockdown, in mezzo alla tristezza più totale. Forse ho avuto una reazione scomposta; (pausa) ricordo mia figlia: “Che fai?”. “Scrivo un film d’amore”. “Sei impazzito?”. Poi mi ha incoraggiato. (Tossisce) Mannaggia, sto fumando e non dovrei (e si scusa più e più volte).
Ha pensato subito alla Sandrelli?
Sempre, però nessuno ci aveva parlato. Nel frattempo ripetevo: speriamo accetti; (pausa) poi ha letto la sceneggiatura e si è divertita.
Bene.
(Cambia tono, sognante) È una ragazza, è arrivata sul set con una freschezza straordinaria, una giovane donna: tutti stravolti da lei.
Trionfo.
(Prosegue come in trance) Si è proprio divertita.
Eravate intimoriti.
Eccome! Prima del suo arrivo ci ponevamo le domande basilari: cosa vorrà? Che farà? Come ci comportiamo? Oh, è la Sandrelli: una star.
E invece?
Di una semplicità, di una dolcezza, di una disponibilità non immaginabili: nessuno di noi poteva prevedere la realtà.
Artena, set del film, in festa.
(Stupito, scandisce) È un paese bellissimo, abitato da persone simpaticissime: ci hanno accolto con un calore enorme. Ho dormito lì, in un piccolo albergo, dove mi cucinavano, con la nonna dei proprietari che mi accoglieva con il vinello; questo clima mi ha dato la forza di girare.
Era preoccupato.
Un pochino; invece ero accudito in una situazione familiare: la sera ero felice di stare con loro; (pausa) qualcuno di Artena l’ho invitato alla prima.
Nel film si coglie l’armonia.
Sul set c’era un’atmosfera di divertimento, di follia. Che ha funzionato; (cambia tono) sono stato fortunato: gli attori scelti si sono rivelati persone generose, piacevoli.
È al quinto film da regista: ha mai diretto un attore indisponente?
Raramente; (pausa) ci metto molto a selezionarli poi, come dicevo, ci vuole fortuna.
Da regista li guida?
Io? Nooo, li lascio liberi, li lascio andare, sono felice pure se inventano battute.
Non si offende.
Spesso me ne regalano di bellissime; (sorride) prima di provare mi chiedono il benestare: “Posso improvvisare?”. “Certo! Vai, vai”.
È un film nato da una “Comune”.
(Ride. Tossisce) Esatto.
Non è geloso della sua sceneggiatura.
No, anzi. Gli attori ci scrivono sopra, integrano e mi piace; a volte penso: “Questa battuta è esagerata, però tentiamo”. Alla fine regge sempre bene; (pausa) mi appoggio tanto agli attori.
Come attore, in Lontano lontano, ha avuto Ennio Fantastichini nel suo ultimo ruolo.
L’uscita era programmata esattamente nello stesso giorno in cui hanno chiuso le sale per il lockdown: Ennio è l’esempio perfetto di quello che spiegavo prima.
Cioè?
Oltre a essere un grande attore aveva una tensione morale straordinaria e con me è stato grandioso: inventava, suggeriva, coinvolgeva.
Carismatico.
Eravamo tutti appresso a lui: arrivava sul set con la sua potenza, una potenza tale da non concedere a nessuno la chance di capire che iniziava a stare male; (pausa) ho un rimpianto: Ennio non ha fatto in tempo a vedere il film.
Torniamo ad Astolfo. Il protagonista spiega: “So’ vecchio, me sento ridicolo, non posso sostenere una situazione del genere”.
(Ride a lungo) A questa età uno si spaventa davanti all’amore; (ci ripensa) uno si spaventa anche a cinquant’anni, quando si è al massimo, figurarsi a 70 quando si ha timore pure del corpo.
Nel film c’è una sorta di pudore tra lei e la Sandrelli.
Lo so, colpa mia.
Che ha combinato?
Lei è stata subito disponibile e spiritosa. Io ero bloccato.
Quindi?
Mentre leggevamo la sceneggiatura mi ha detto: “Qualche bacetto ce lo possiamo dare”.
E allora?
(Cambia tono) Lì confesso.
Cosa?
Ho pensato: chi lo sa, magari se ci conoscevamo prima…
E…?
Magari succedeva qualcosa; (pausa) non lo saprò mai.
È uno delle attrici più brave e sensuali del cinema italiano.
È eccezionale.
Va bene, ma niente bacio.
In una scena ci andiamo vicini; (silenzio) ho sempre avuto molto pudore, poi adesso, con l’età, è aumentato.
Quando si è rivisto?
Mi sono abbastanza piaciuto; (pausa) delle scene d’amore avevo proprio paura, mi chiedevo: e poi che faccio? Lì è stata brava lei, talmente naturale…
Vi buttate a terra in un campo di grano.
E ho pensato: oddio, se famo male, tanto da scusarmi con Stefania (è la prima e unica volta che la chiama per nome).
E la Sandrelli?
Ha risposto “mi puoi gettare a terra anche una decina di volte”. È bellissima.
È arrivato tardi alla fama, a 58 anni: un bene o un male?
Un bene: non so se avrei saputo gestire il successo da giovane; (silenzio) a questo aspetto ci ho pensato spesso ed è stato meglio, mi ha permesso di non cadere in strane tentazioni da trentenne.
Tipo?
In realtà non lo so.
Che combinava a trent’anni?
Lavoravo nel cinema, scrivevo, sempre nell’ombra; poi mi hanno aiutato un paio di anni d’analisi: lì ho risposto alla domanda centrale.
Qual era?
“Perché non giri film tuoi?”. Finita l’analisi ho iniziato. Ed è nato Pranzo di Ferragosto.
Dai 30 ai 58 anni ci ha messo molto.
Non è stato un processo semplice; per Pranzo di Ferragosto ho impiegato 10 anni, nessuno lo voleva produrre, eppure mi conoscevano, avevo scritto sceneggiature, avevo fatto l’aiuto regista.
A chi?
Spesso a Matteo Garrone: con Matteo c’è un rapporto particolare nonostante i vent’anni di differenza; (pausa) quando l’ho conosciuto ho capito il talento enorme, così gli ho chiesto se potevo diventare il suo aiuto. E alla fine è stato lui a produrre il Pranzo.
Le dicevano di no…
La risposta era sempre la stessa: “Ma che ce devi fare co’ ‘ste vecchiette?”. Invece Matteo ci ha creduto, ha pure presentato dei documenti in cui ha messo come garanzia casa sua; al momento della firma era bianco in volto, io pure, mi sentivo in colpa; (pausa) sono stato malissimo, non ho dormito per almeno quattro mesi.
È stato tenace.
Veramente un capoccione, ma è l’amore per il cinema.
Come l’ha scoperto?
Mio padre era fissato: tutti i giorni mi portava a vedere un film; da grande si è un po’ pentito.
Perché?
Non combinavo nulla, mi ero iscritto alla facoltà di Lettere ma studiavo poco, così un giorno mi guarda sconsolato: “Forse ti ho portato troppo al cinema”.
Proprio non studiava.
Puntavo al minimo per non partire militare; (sorride) un anno non bastò l’esame salvifico e allora sono stato spedito in Friuli: io dentro un carrarmato, esperienza terribile; finita la naja mi sono iscritto a una scuola di teatro.
Il primo set.
Una piccolissima comparsa nell’ultimo film di Rossellini; in realtà la mia principale mansione era quella di portare il caffè.
Da bambino che sogna ad adulto al lavoro: cosa l’ha stupita e cosa l’ha delusa del cinema?
Mai deluso, solo che da ragazzo ero troppo legato a un atteggiamento intellettuale.
Cosa intende?
Se lavoravo ai b-movies un po’, stupidamente, ne soffrivo; (pausa) invece di godermi quella vita meravigliosa; (altra pausa) era pure faticoso: mi alzavo all’alba, prendevo la macchina di mio padre, un bidone da sei posti, quindi iniziavo il giro e andavo a prendere gli altri lavoranti; una volta sul set preparavo il caffè e altri lavoretti. La sera riportavo tutti indietro.
Però?
Erano giornate piene di risate, di belle ragazze, mi pagavano, e invece mi ostinavo a mantenere l’atteggiamento dell’intellettuale. Non me la sono goduta, oggi mi darei uno schiaffone.
Era un esistenzialista.
Un cretino, diciamo la verità (tra sé e sé lo ripete più volte: “C’erano ragazze meravigliose”).
Ogni suo film è ispirato dalla sua vita.
Compresa l’occupazione della casa.
Dove?
Un paesino dell’Abruzzo: l’ultima volta che ci sono andato, prima del terremoto, ho passato i tre mesi più belli della mia vita. Alla fine si era creato un gruppo di persone, quattro vecchietti: uno si occupava della spesa, un altro cucinava, poi giocavamo a carte, arrivavano le uova fresche, fumavamo, una bottiglia di vino. Sembrava un’osteria. Bellissimo.
Sì, ma chi aveva occupato casa?
I preti.
Come i preti?
La canonica è attaccata a casa mia e nel corso degli anni mi hanno fregato alcune stanze; io ogni tanto ci parlavo: “Scusate, ma dove sta scritto che sono vostre?”. E loro: “No, è così”; dopo il terremoto, visti i danni, secondo i preti quelle stanze erano di nuovo di mia proprietà.
Con la fama cosa ha scoperto?
Forse c’è stata una pacificazione con me stesso, tutto il resto è uguale.
Però ora è uno dei protagonisti dei David.
Questo è bello.
Come la trattano i colleghi registi?
Bene, forse perché non sono invadente, e sento l’affetto.
Oltre a Garrone, da chi?
Virzì mi ha coinvolto con un piccolo ruolo in Siccità. Che bel film. Io evito di recitare, ho molte resistenze.
Confonde mai la vita con il set?
Credo di sì: a me il set dà la vita, torno quarantenne, ritrovo la vitalità.
E quando finisce il set?
Per qualche giorno cado in una sorta di depressione: non trovo il senso nella quotidianità.
Lei chi è?
Un personaggio mite, accondiscendente e curioso degli altri. Forse questo aspetto mi ha salvato, o almeno aiutato.