Corriere della Sera, 23 ottobre 2022
Robert Montgomery, il re dei trapianti, ha un cuore nuovo
In queste settimane il team della scuola di medicina e del trapianto del NYU Langone Health di New York si è trasferito in Ucraina nel più grande centro di trapianto del Paese devastato dalla guerra. Lo ha voluto fortemente il loro capo, Robert Montgomery; hanno avuto del coraggio, c’è stato bisogno che gli ucraini proteggessero il loro viaggio con degli apparati mobili per schivare i missili, «mi sono reso conto di quanto buia possa essere la notte», ha detto Montgomery. In Ucraina i medici di New York hanno visitato oltre 300 pazienti in quattro centri per rifugiati e poi sono riusciti a portare a termine con successo tre trapianti di rene e uno di cuore, in quello che restava dell’ospedale dei trapianti, fianco a fianco con i colleghi di Leopoli; hanno visto devastazione e morte, hanno promesso loro che continueranno ad aiutarli.
Ma chi è questo Robert Montgomery? Uno dei più grandi chirurghi del mondo, scapestrato, se volete, ma certamente geniale; pensate che durante un viaggio da Dallas a Parigi di un po’ di anni fa si trova per caso seduto accanto a Denyce Graves, mezzo soprano, alta, nera, bellissima; parlano tutto il tempo e mentre l’aereo sta per atterrare hanno già deciso che si sposeranno. Denyce ad appena 30 anni aveva già incantato tutto il mondo con la sua Carmen al Metropolitan, un po’ per la voce, un po’ per la sua imponente presenza scenica. Oggi è la «top diva» della sua generazione, canta regolarmente alla National Cathedral di Washington, ed è proprio lì che Denyce e Robert si sposano, con una cerimonia tutto sommato semplice, pochi amici, la famiglia – due figli lei, Robert di figli ne aveva già tre – e a onor del vero un po’ di telecamere. Ma si erano già sposati, si fa per dire, in un villaggio Masai in Africa con un patto di ferro: «Tu vieni a vedermi all’opera e io un giorno verrò al tuo di teatro (operating theatre, si dice proprio così in inglese) voglio vederti operare». Montgomery vede Denyce nel 2007 alla Washington National Opera nel Bluebeard’s Castle, lei dopo averci pensato su un bel po’ si decide ad andare da lui in ospedale. Assiste a un trapianto dall’inizio alla fine, ma «non sono sicura che lo rifarei».
Montgomery adesso è una celebrità: ha introdotto l’intervento chirurgico di prelievo del rene da vivente attraverso una procedura laparoscopica, cioè molto poco invasiva rispetto alla chirurgia tradizionale (quella tecnica oggi nel mondo la usano tutti). È stato lui il primo a stabilire che attraverso un primo donatore «altruistico» possono partire catene di donazioni che consentono di poter trapiantare anche 10 ammalati. È entrato nel Guinness dei primati per aver fatto il maggior numero di trapianti in un giorno solo. Come se non bastasse ha saputo rimuovere il rene di una donatrice attraverso la vagina, un po’ imbarazzante a dirla tutta, ma funziona: non c’è bisogno di incidere i tessuti e si guarisce subito. Sempre lui un anno fa ha trapiantato il rene di un maiale modificato geneticamente su un uomo in condizioni di morte cerebrale; quel rene ha funzionato. Robert Montgomery, insomma, è una di quelle persone che intravede opportunità dove gli altri vedono problemi: quando ti senti dire «no, questo non potrà mai funzionare», lui ci prova.
Ma un giorno capita che il principe dei chirurghi del trapianto abbia bisogno, proprio lui, di un trapianto, di cuore. Possibile? Robert Montgomery ha una cardiopatia famigliare che ha già portato alla morte suo padre, a soli 52 anni, e suo fratello, che, quando ne aveva appena 35, ebbe un arresto cardiaco mentre faceva sci d’acqua. Per Bobby fu un trauma, al punto di decidere che avrebbe voluto essere medico e dedicarsi al trapianto e fare quello che non era stato consentito a suo padre (allora 50 anni erano troppi per avere un trapianto di cuore). Robert Montgomery dall’età di 29 anni ha addosso un defibrillatore, ma arriva il momento in cui il cuore del chirurgo del cuore si ferma; lo rianimano, il cuore riparte ma torna a fermarsi altre sette volte nel giro di pochi anni, l’ultima proprio in Italia, a Matera, in albergo, nel settembre di quattro anni fa.
A quel punto lì è chiaro che Bobby ha bisogno di un trapianto di cuore. «Da non credere – pensa Robert fra sé e sé – quando ho fatto venire quei ragazzi (i suoi colleghi) a lavorare con me non avrei mai pensato che un bel giorno qualcuno di loro avrebbe avuto fra le mani la mia vita».
In terapia intensiva nell’attesa di un organo che non arriva mai, il super chirurgo pensa quello a cui hanno sempre pensato i suoi ammalati: «Quanto dovrò rimanere qui prima che arrivi il cuore che va bene per me?». «Che brutto rendersi conto che c’è qualcuno che dovrà morire perché io possa tornare a vivere». Montgomery sa bene che non sempre il cuore arriva in tempo, se non succede si muore. Insomma, devi essere fortunato. E c’è di più, Montgomery non vuole favoritismi, ma è anche alto un metro e 85: per lui ci vuole un cuore grande grande e trovarlo non è facile. E non basta, il suo sangue è di gruppo 0, serve un donatore compatibile, ancora più difficile. Ma dopo qualche giorno di rianimazione il suo vecchio cuore ha un piccolo sobbalzo: nella sua stanza entra un dottore tutto trafelato «Bobby, c’è un organo per te, un ragazzo morto di overdose, l’hanno trovato con l’ago ancora infilato nel braccio». Poi quel dottore si fa tutto serio, c’è un però: quel ragazzo aveva l’epatite C. Ma Montgomery non ci pensa un minuto: «Benissimo, prendo quel cuore e l’intervento lo facciamo fare a Nader» (Nader Moazami che adesso guida il programma di trapianto di cuore messo in piedi da Montgomery a Baltimora, ndr). Nel fare questa scelta il dottor Montgomery sapeva che si sarebbe ammalato di epatite C, quel virus è molto contagioso, e chi riceve un organo da una persona infetta, a sua volta, si ammala, tanto che fino a pochi anni fa organi di pazienti con epatite C non se ne usavano proprio. «Meglio – pensa Robert – forse quel cuore sarebbe stato scartato, così non tolgo un cuore a quelli che aspettano». Non solo, quello era il cuore di un ragazzone morto di eroina e lui sa bene che gli organi delle persone giovani funzionano meglio degli altri.
Cinque giorni dopo l’intervento, Robert contrae il virus dell’epatite. Oggi però c’è un farmaco (costosissimo, certo, ma anche estremamente efficace) che guarisce più del 95% dei pazienti, lo si deve prendere ogni giorno per otto settimane, e dà anche qualche disturbo, ma pazienza. Bobby guarda avanti. Due settimane dopo è già in ospedale e dopo altre due di nuovo in sala operatoria, non prima di aver parlato col paziente che opererà il giorno dopo per dirgli fra l’altro una cosa bellissima: «Adesso so perfettamente cosa proverai, ci sono passato anch’io due mesi fa; ero dall’altra parte, dalla tua parte, l’altra faccia della medaglia la conosco bene».
Per convincere gli ammalati a non rifiutare gli organi di pazienti con l’epatite C a Robert adesso bastano poche parole: «Vede signore, di epatite C si guarisce come sono guarito io, il rischio di morire mentre si aspetta un organo che sia un cuore, un fegato o un polmone, è molto più alto». Da giovane Bobby era stato in Africa; «chissà, forse è stata quell’esperienza, di certo lui sa parlare con i suoi ammalati con una dolcezza incredibile», dicono gli infermieri.
Chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui penserà che tutto questo non è vero, che è la trama di un film, ma in quel film c’è tutto il progresso della medicina e della chirurgia e la dedizione di chi fa ricerca per trovare farmaci nuovi. Agli antibiotici siamo abituati, ma fino a pochi anni fa non pensavamo che ci sarebbero state pillole capaci di vincere anche i virus. Adesso ci siamo: col virus dell’epatite C, dell’herpes, con l’Hiv e un po’ anche con Sars-CoV-2. I virus che verranno non avranno vita facile.