La Stampa, 23 ottobre 2022
I progressisti sono fuori dal tempo
La composizione del governo Meloni rende ancor più evidente un dato di fatto che, del resto, è sempre stato sotto ai nostri occhi: alle elezioni ha vinto la destra. Non una destra «estrema» entro i cui confini si aggirerebbero, con sguardo torvo e viso arcigno, «ultra»-cattolici a braccetto con «iper»-conservatori, come troppo spesso si dice in Italia e all’estero con l’intento piuttosto evidente di delegittimare una parte politica appiccicandole addosso un’etichetta iperbolica. Ma nemmeno un centrodestra liberale o al più, com’era Forza Italia nella sua stagione d’oro, liberal-populista. No: una destra solidamente e orgogliosamente tale, popolata di conservatori laici e cattolici. Siamo di fronte a una svolta radicale? Di per sé la nascita di un governo in Italia, Paese di statura media, non è in grado di generare una mutazione storica d’importanza primaria. Può tutt’al più essere la spia di un cambiamento di clima.E, questo sì, mi pare che il governo Meloni lo sia, che sia la conseguenza della rivolta, visibile su scala planetaria, di settori in genere non maggioritari ma assai consistenti dell’opinione pubblica contro l’accoppiata globalizzazione-individualismo e il suo impatto devastante su identità e legami sociali.Le prime a essere sfidate da questa rivolta e dalle sue conseguenze sono la cultura e la politica progressiste. Le quali per la verità, almeno finora, non si sono dimostrate granché all’altezza della sfida. Il progressismo ha reagito al montare dell’onda conservatrice facendo forza su una concezione – appunto – progressista della storia: la storia avrebbe una logica e una direzione e, una volta superate certe soglie, indietro non si può più tornare. Da qui l’accusa che vien mossa ai conservatori di essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo, reduci di un’epoca ormai remota e conclusa, «medievali» addirittura.L’errore è nel manico: la concezione progressista della storia non regge più, e la rivolta contro la coppia globalizzazione-individualismo nasce proprio dalla sua crisi. È perché non credono più che la storia abbia una logica e una direzione, insomma, perché sono spaesati e angosciati dal futuro, che gli elettori votano a destra. E con l’idea di progresso in pezzi, allora, tocca ai progressisti essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo. Sono loro a esser chiamati ad abbandonare ogni pigrizia, ad affrontare seriamente le obiezioni dei propri avversari, a ripensare e ricostruire le proprie ragioni.Su scala globale, la rivolta dalla quale scaturisce il gabinetto Meloni presenta poi una seconda sfida, più seria ancora della prima: poiché la coppia globalizzazione-individualismo è figlia della democrazia liberale, il suo rifiuto rischia fatalmente di prendere una torsione autoritaria. Tanto quanto appare inequivocabilmente orientato a destra, d’altra parte, allo stesso modo il nuovo governo, nella sua composizione, dimostra anche grande rispetto per la cornice europea e atlantica entro la quale si muove l’Italia. E, di conseguenza, per i valori democratici e liberali che sorreggono quella cornice. Basta dare un’occhiata alle caselle ministeriali fondamentali: Interno, Esteri, Economia, Difesa, Giustizia.In questa doppia cifra, mi pare, risiede l’aspetto più interessante dell’esperimento di Giorgia Meloni. C’è lo sforzo insistito, esplicito e orgoglioso di restare fedele alla propria storia e ai propri princìpi, e perciò di non abbandonare un saldo ancoraggio a destra. Ma c’è pure lo sforzo parallelo di fare in modo che quella storia e quei princìpi non si contrappongano frontalmente allo status quo, non rischino di esserne respinti in una sorta di ghetto, ma al contrario entrino in dialogo con esso, guadagnino legittimità e forza fino a poterlo modificare gradualmente dall’interno.L’operazione resta tutt’altro che agevole, soprattutto nelle attuali, complicatissime circostanze storiche. La squadra di governo sarà adeguata a un compito così impegnativo? Non è male, ma forse si poteva far di meglio. Meloni sembra aver scontato due limiti, nel comporla. Il primo ha a che fare col rapporto fra tecnici e politici. In questo gabinetto prevalgono largamente i politici, com’è giusto che sia: un governo è un organismo politico, qualche tecnico può starci ma, in tempi ordinari, dev’essere un’eccezione. Per ragioni storiche, tuttavia, a destra i politici di «rango ministeriale» non abbondano. Il bacino da cui attingere ministri politici, insomma, era un po’ a corto di acqua.Il secondo limite di Meloni è figlio della sua riluttanza ad allargare lo sguardo al di fuori degli ambienti che ha frequentato, nei quali è cresciuta e di cui si fida – riluttanza che già si è manifestata con le liste elettorali, e che la composizione del governo rende ancora più evidente. La prudenza della presidente del Consiglio è comprensibile, certo. Anche in questo caso, però, si tratta di trovare il giusto equilibrio fra due esigenze contrapposte: allargare il gruppo dirigente da un lato, preservarne i rapporti di fiducia interni dall’altro. Per il momento, la seconda esigenza ha preso il sopravvento sulla prima. Aprire un piccolo partito identitario al vasto mondo evitando che si diluisca: questa, in definitiva, è la grande sfida di Meloni, sul terreno ideologico così come nella scelta delle persone.