Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 22 Sabato calendario

Biografia di Nino Migliori raccontata da lui stesso

C’è sempre una foto che sovrasta le altre, suscitando ciò che Aby Warburg chiamava pathosformel, cioè quella forza visiva che alcune immagini proiettano oltre se stesse e il proprio tempo. Così è guardando Il tuffatore di Nino Migliori, una foto che, per la disposizione del corpo, orizzontale all’acqua, dona l’impressione che davvero l’istante possa sospendere il tempo. Quello scatto risale ai primi anni Cinquanta e il caso, come vedremo, vi ebbe un ruolo dominante.
Su Nino Migliori, Elisabetta Sgarbi ha realizzato il bel filmViaggio intorno alla mia stanza: l’allusione è al romanzo di Xavier de Maistre, ai 42 giorni che lo scrittore trascorse in una sorta di arresto domiciliare e, come per una suggestione, il documentario dura 42 minuti. Il film è girato interamente nello spazio dello studio bolognese dove Migliori tutt’ora lavora. È un racconto intenso ma anche distaccato. Le immagini, montate con perizia, come fossero dei capitoli concettuali, scandiscono il talento di un artista che non ama esibirsi.
Come stai vivendo i tuoi 96 anni?
«I miei genitori superarono quota 90, perciò li vivo con riconoscenza verso di loro. Ma li vivrei meno bene se non avessi al fianco mia moglie Marina. Ancora mi sorprendo al pensiero di quanto sia importante. Mi verrebbe da commentare che perfino dietro un uomo qualunque come me c’è una grande donna!».
Marina è molto più giovane.
«L’ho conosciuta negli anni del mio insegnamento all’università di Parma».
L’allieva e il maestro.
«Non ho mai avuto allievi. Nel senso ovvio, perlomeno.
Coloro che assistevano alle mie lezioni di fotografia non erano poi così diversi da me. Ho sempre detestato gerarchie e protagonismi. Ebbi la fortuna di incontrare una generazione di studenti con cui sperimentare e progredire insieme. Sarebbe interessante recuperare dagli archivi dell’università i lavori di quei giovani di allora, ti assicuro che erano notevoli».
Torniamo alla tua fotografia. Ti definisci uno sperimentatore.
«Credo di esserlo sempre stato. È tipico della modernità cercare nuove strade, in una tensione proiettata al futuro».
Il tuo punto di origine è il 1948.
«Sono nato nel 1926. Nel ’48 sono rinato come fotografo».
Prima di allora cosa facevi?
«Ho lavorato a lungo nell’azienda Fabbri – quella delle amarene – ho iniziato come semplice impiegato fino a ricoprire incarichi dirigenziali. A differenza dei miei, che vedevano nel figlio unico la realizzazione dei loro sogni, non ero entusiasta. Mio padre era stato operaio delle ferrovie. Costruiva o riparava ponti di ferro. A volte stava fuori per settimane. Credo non abbia mai avuto il senso della famiglia. Gli piacevano l’osteria, gli amici, la buona musica. Ma fu contento che un perito elettrotecnico fosse salito, in tutt’altro mestiere, al rango di manager».
E la fotografia?
«Una passione adolescenziale. Avevo una macchinetta e partecipai a un concorso parrocchiale per la più bella foto. Inaspettatamente vinsi il primopremio. In palio c’era una macchina fotografica professionale. Cominciai così a fotografare, con regolarità. Allora, parlo di prima della guerra, c’erano a Bologna diversi circoli amatoriali di fotografia. Mi iscrissi a uno di essi. Nel tempo libero andavo in giro a fotografare. Ero molto estetizzante».
Cosa vuoi dire?
«Erano foto belle, almeno per il mio canone, ma senza un pensiero dietro. Fu dopo la guerra che cominciai a capire che la fotografia è un’arte che non deve cercare necessariamente il bello. Poi cosa sarebbe questo bello? Penso che il motore della fotografia sia il desiderio di vedere. E di capire. I fotografi hanno sempre preso dalla realtà ciò di cui avevano bisogno, ma devono anche restituire qualcosa che la realtà in quanto tale non ha. È un difficile dare-avere. Ma senza questo scambio di doni non sarei andato da nessuna parte».
Il tuo lavoro ha inizio con il neorealismo.
«Avevo sotto gli occhi un’Italia in “bianco e nero”.
C’erano le macerie e la ricostruzione, ancora agli inizi.
Si proiettavano i film di Rossellini e De Sica e la letteratura sfornava prodotti analoghi con Pratolini, Silone, Moravia, Vittorini, tanto per fare nomi conosciuti . Mi legai a quel tipo di “scrittura” che si nutriva dell’esperienza della guerra, della Resistenza, delle periferie. Povertà e speranza».
Risale a quel periodo la famosa foto “Il tuffatore”?
«La scattai nei 1951. Mi trovavo a Rimini. Camminando lungo il molo notai un gruppo di ragazzetti in costume che si tuffavano. Una corsetta e giù in acqua. Fu istintivo. Puntai l’obiettivo aspettando lo slancio e poi il volo. Fu un solo scatto. Un colpo di fortuna. Fissai quel giovane corpo perfettamente in linea con la superficie del mare. Me ne resi conto solo allo sviluppo. La cosa incredibile è che l’inquadratura era perfettamente equidistante dai due lati della pellicola. Neanche dopo mille tentativi avrei potuto realizzare tanta perfezione».
Lo dici come se fosse stato il caso a realizzare quell’immagine.
«È la verità. Il caso mi ha sempre incuriosito. Quando penso al mistero non posso che ricondurlo al caso. Lì dentro si nascondono le peggiori tragedie umane e le più grandi conquiste. Ma siamo troppo orgogliosi e narcisi per ammetterlo».
Quella foto comunque ti rese famoso.
«Ma non ne feci niente. Anzi, me ne dimenticai.
Apparve su qualche rivista specializzata e suscitò l’interesse di alcune gallerie. Tanto è vero che, qualche anno dopo, venne a trovarmi un famoso gallerista americano, Keith de Lellis, volle vedere il mio lavoro e intendeva esporre Il tuffatore nella sua galleria newyorkese. Gli dissi che l’offerta mi riempiva di orgoglio ma che quella foto era un unicum e come tale non aveva senso esporla».
Perché? Dopotutto è quello che il mondo dell’arte cerca.
«È vero, ma non volevo essere identificato con quella foto lì. Il mio lavoro evolveva in più direzioni. E intendevo restare libero. In quel periodo, parlo degli anni Sessanta, ero stato invitato a far parte del gruppo di fotografi della Magnum che lavorava con Cartier-Bresson. Ma avrei dovuto abbandonare tutto quello che fin lì avevo fatto. Lasciarmi Bologna alle spalle. Preferii restare dov’ero. Difesi la mia libertà, che poi è il bene per me più prezioso. Intendo prezioso per il mio lavoro».
Bologna è stata la tua città imprescindibile.
«Lo è tutt’ora. Un “paesone” ancora civile, cordiale, culturalmente ricco più di quanto non appaia.
Bologna ha contribuito alla mia maturazione artistica.
Qui negli anni cinquanta è nato l’informale e la mia fotografia ne ha beneficiato tantissimo».
Chi frequentavi allora?
«Scrittori, ma soprattutto quegli artisti - come Bendini, Mascalchi, Cuniberti, Tulga, Leonardi e altri - che resero la Bologna degli anni Cinquanta una delle capitali dell’arte contemporanea. Di solito si citano Milano, Roma, Torino, dimenticando che quel decennio – anche grazie al lavoro di critici come Arcangeli, Emiliani, Calvesi – fu straordinario per la città dove sono nato. Vorrei aggiungere, per la serie degli artisti ingiustamente misconosciuti, che Vasco Bendini fu il grande innovatore dell’informale e di lui fui molto amico, così come di Emilio Vedova».
Vedova viveva a Venezia.
«Andavo a trovarlo nei weekend. Fui suo amico, come lo divenni di Tancredi Parmeggiani. Nei soggiorni veneziani mi capitava di dormire nei loro studi. Ma in realtà si dormiva poco. Sia Vedova che Tancredi erano spesso ospiti alle serate organizzate dalla Guggenheim. Un giorno Peggy li invitò dicendo che una cugina le aveva spedito un quadro. Voleva che loro lo vedessero. Ovviamente andai anch’io. Fu una serata memorabile sia per la quantità di vino che bevemmo che per il quadro che a un certo punto, in piena notte, ci fu mostrato. Era un Pollock. Sapevo vagamente qualcosa dell’artista, esposto senzaparticolare successo alla Biennale del 1950. Ma quello era il suo primo dipinto che vedevo. Nel 1958, due anni dopo la sua morte, ci sarebbe stata la sua consacrazione con la grande mostra romana alla Galleria d’Arte Moderna. Ma noi tre avemmo il privilegio di vedere qualche anno prima quel suo grande quadro che, nel groviglio di linee casuali e colori, sembrava raccontare il caos come un pugno sferrato in piena faccia».
Vuoi dire che ti turbò?
«L’arte quando è grande provoca turbamento. Quanto a me, cercai di sperimentare le tecniche del “dripping” applicandole alla fotografia».
Il “dripping” è lo sgocciolare del colore liquido sulla tela. Una specie di inno alla casualità.
Credo che Pollock avesse trovato nelle teorie dell’inconscio sostenute dal surrealismo la giustificazione culturale e ideologica all’idea di caso.
Del resto, sono sicuro che Kerouac non avrebbe scrittoSulla strada senza il precedente di Pollock. Io stesso non avrei realizzato le mie “ossidazioni” senza il “dripping” dell’uomo che inventò l’action painting».
Il tuo lavoro di fotografo è importante anche per la serie che hai dedicato ai muri.
«Ho fotografato muri per trent’anni. Prevalentemente a Bologna. Attraverso i muri ho cercato di leggere la vitalità di una città. I muri ci parlavano già moltoprima che imperversasse la street art. Più che i lampioni, i muri rivelano la luce opaca di una città».
A proposito di luce e lampioni, sei famoso anche per l’utilizzo nel tuo lavoro della candela.
«Fa parte, come al solito, della mia volontà di sperimentazione. Negli anni dell’università a Parma mi fu chiesto di fotografare il complesso scultoreo dello Zooforo del Battistero e guardando quei capolavori mi sono chiesto come facevano nel medioevo a vedere queste formelle quando il sole non c’era. È nata così l’idea di fotografare alcune sculture antiche alla semplice luce delle candele. È stato complicatissimo e ha richiesto uno sforzo fisico notevole».
Consideri il risultato all’altezza delle intenzioni?
«A sentire chi le ha viste – recentemente una mostra di queste foto che ho chiamato Lumen è stata realizzata in una galleria di Bergamo – direi di sì. È come se, grazie a questa tecnica, noi potessimo tornare a guardare quei capolavori con gli occhi del passato».
La stessa tecnica l’hai applicata ai ritratti.
«Sto partendo per la Reggia di Colorno dove si inaugura una mia mostra. Ottanta ritratti realizzati in parte alla luce di un fiammifero e in parte con photoshop. Tra i personaggi che ho fotografato ci sono Warhol, Rauschenberg, Vedova, Man Ray, Bendini, Tancredi. Ti dico i primi nomi che mi vengono in mente. Peccato che non abbia potuto inserire GiorgioMorandi».
Cosa lo ha impedito?
«Il fatto che si tenne le foto che gli scattai. Disse che voleva pensarci su e sceglierle. Ci conoscemmo perché un giorno in via Fondazza, dove abitava, fotografavo i muri dei portici. Si incuriosì. Non era interessato al realismo bensì alla materia e alle forme, come del resto suggeriscono le sue “bottiglie”. Mi chiese di fargli una serie di ritratti e poi conservò il tutto. Non lo sollecitai ad avere indietro almeno la pellicola, e quando poco dopo morì si persero le tracce di quel materiale. Anche qui il caso ha avuto la meglio».
Nel film di Elisabetta Sgarbi a un certo punto dichiari perentoriamente di non credere in Dio, che è poi l’esatto opposto della casualità.
«Non credo in Dio, e non c’è ragione che io fornisca spiegazioni su qualcosa che non esiste se non nella nostra mente o nei nostri sogni. Ma se è per questo non credo neppure nel mio lavoro. Almeno non ci credo fino in fondo. Ed è la ragione per cui sono condannato a sperimentare. Così mi illudo che cambiare sia il solo modo per dare un senso al mio lavoro Come avrai capito non sono ambizioso. Sono mite e ostinato. Non mi vergogno di dirlo: ma è ciò che rende serena la mia lunga vecchiaia.