Robinson, 22 ottobre 2022
Intervista al disegnatore Chris Ware
Lettore, se pensi di poter affrontare Building Stories mentre ogni tanto guardi i social sul telefono, un avvertimento: lascia perdere. Chris Ware, 54 anni, è ormai un’istituzione del fumetto mondiale. Per ogni sua opera ha collezionato premi di ogni genere, a partire dai numerosi Eisner e Harwey Awards, fino allo Yellow Kid di Lucca Comics (di cui Ware si dice molto felice perché adora i fumetti delle origini) ed è stato il primo fumettista invitato a tenere una mostra al Whitney Museum. È stato inoltre celebrato tra i “Masters of American Comics” dal Jewish Museum di New York, insieme a giganti come Will Eisner, Jack Kirby, Harvey Kurtzman e Robert Crumb.
Tra le sue opere (quali Jimmy Corrigan, Rusty Brown e
Acme Novelty) Building Stories è la più complessa: ti chiede non soltanto attenzione ma anche e soprattutto dedizione. Se decidi di affrontarla spegni qualsiasi oggetto elettronico intorno a te e immergiti in quello che non è un libro, ma una grande scatola in cui trovi 14 oggetti dei più vari formati realizzati con cura maniacale.
Si intitola “Costruendo storie” ma l’autore gioca anche sul doppio senso di “Storie di un edificio”, dal momento che l’edificio stesso è uno dei protagonisti e parla. Puoi iniziare a leggere da dove ti pare (ma forse non inizierei dalle storie delle api): solo quando avrai letto e guardato tutto, ti apparirà la visione reale dell’immensa costruzione di Ware. Che è la vita di tutti noi.
La protagonista principale di “Building Stories” è una donna, che viene analizzata in maniera estremamente delicata e poetica. Perché questa scelta?
«Beh, solo perché come essere umano sento che è mio dovere cercare di capire le persone che non sono me stesso. E mentre sto invecchiando come fumettista, ho cercato di espandere lentamente questo tentativo di entrare in empatia e comprendere gli altri a un livello che penso si adatti alla mia esperienza e alle mie limitate capacità intellettuali ed emotive. Non avevo pianificato cheBuilding Stories riguardasse quell’unico personaggio: è diventato così mentre ci lavoravo. Ma ho scoperto, in modo abbastanza interessante, che mi sono sentito più me stesso attraverso questa donna che con qualsiasi altro personaggio maschile di cui abbia mai scritto. È uno strano tipo di esperienza che penso molti romanzieri e scrittori abbiano provato quando certi personaggi che dovevano restare sullo sfondo finiscono per arrivare in primo piano e diventano le persone attraverso le quali ci si “sente” più intensamente e anche più sinceramente».
Il nome di questa donna non viene mai rivelato: immagino sia una scelta voluta.
«Sì, certo, è stata una scelta deliberata perché ho notatoche io nei miei sogni non ho mai un nome, o comunque non viene mai menzionato».
La protagonista è una donna a cui, in seguito a un incidente avuto da bambina, manca la parte inferiore della gamba: una sorta di stigma sociale...
«Volevo mettere in discussione l’idea della disabilità. Odio questa parola perché implica che ti manchi qualcosa, quando in realtà il cervello e il corpo umani si adattano alle cose sorprendentemente bene. Se un senso è limitato gli diventano molto più attivi. Per esempio io e te abbiamo entrambi una disabilità: indossiamo gli occhiali. È la più comune tra le disabilità ma quasi nessuno la considera tale: io volevo scrivere dal punto di vista di qualcuno che vive questa cosa come parte naturale della vita. Perché dal punto di vista emotivo io potrei avere una caratteristica che potrebbe essere considerata una disabilità ma al tempo stesso è una naturale inclinazione verso ciò che è empatico o “amplificato”. Così ho dato alla protagonista un carattere che l’ha resa più empatica nei confronti di sé stessa e anche del pubblico».
Ci sono voluti dieci anni per realizzare quest’opera.
«Disegnare fumetti non è il modo più economico per comunicare la vita stessa, ma è un modo economico per comunicare il senso della vita. Non penso che ci vogliano solo poche ore per leggere il mio lavoro ma non voglio neanche impegnare l’attenzione di nessuno più del necessario. Qui sono contenuti i pensieri di dieci anni della mia esistenza, il che è un vantaggio: se avessi realizzato Building Stories molto velocemente forse avrebbe avuto un senso più limitato della vita. Infatti alcune delle idee che erano nelle prime pagine sono state modificate o addirittura contraddette o migliorate dalle pagine successive, quando sono diventato più vecchio.
Non c’è nessun motivo per correre. Non penso che sia necessariamente positivo cercare di catturare le esperienze in un’unica cosa condensata. Quindi, per esempio, alcuni dipinti richiedono anni per essere realizzati. Per molto tempo, soprattutto nella pittura americana, l’idea di un gesto frettoloso ed eroico è stata considerata più importante del meticoloso senso dello studio e del dettaglio e della “granularità”, per usare una parola molto contemporanea. Ma è solo una specie di moda e un cambiamento culturale o qualcosa del genere. In realtà non ci sono regole quando si tratta di arte. A parte quella di non essere uno stronzo».
C’era già dall’inizio l’idea di creare qualcosa di così monumentale o è cresciuta man mano?
«Sono stato molto ispirato dalDecalogo di Krzysztof Kie?lowski: dieci film della fine degli anni ’80, ambientati in un condominio, in cui raccontava le vite di varie persone e il modo in cui queste vite si intersecavano.
Mentre lavoravo, però, mi sono reso conto che la storia è mutata diventando sempre più incentrata sui pensieri e sui ricordi del personaggio principale e, soprattutto, sulle sue riflessioni sulle persone che le stavano intorno. E così è semplicemente diventato un libro su di lei. Quindi tutti o la maggior parte degli eventi che accadono inBuilding Storiesche non riguardano lei sono il frutto della sua immaginazione su ciò che fanno i vicini. Il che è quello che capita a tutti. Molto di ciò che secondo noi è la realtà dipende dalle storie che ci siamo inventati su altre persone basate su dicerie o fatti raccolti qua e là. Ed è così che navighiamo nella vita. Volevo provare a catturare questa idea sia nella storia che visivamente sulla carta».
Anche l’edificio ha una vita sua: parla, racconta…
«È così: vede e narra. Ti fa capire che il personaggio principale si considera un’artista e una scrittrice fallita, ma in realtà non lo è, perché nessuno è un artista fallito o uno scrittore fallito: tutti stiamo costantemente modificando la storia che la nostra vita scrive. Che lo scriviamo su un foglio o no, siamo tutti scrittori. Questa donna pensa che l’essere diventata madre le abbia impedito di essere un’artista: io volevo chiarire che non è così per nessuno. Prima di tutto, credo che essere un genitore sia una delle cose più importanti che puoi essere come individuo. E in secondo luogo, non ti impedisce di essere una persona creativa. Perché tutti hanno dentro questa cosa. Tutti facciamo arte attraverso la nostra stessa esistenza, per questo sono convinto che la narrativa sia così importante: fornisce una sorta di simpatetica vibrazione su come procedere nella vita».
Uno dei temi potenti dell’opera è quello del segreto.
Magari smarrito in quello che Lynch chiamava l’Inland Empire, il proprio “impero interiore”.
«È vero. Anche io e mia moglie dopo 25 anni di matrimonio ci sorprendiamo con storie che non ci siamo mai raccontati. Ho incoraggiato mia figlia, che adesso ha 17 anni, a tenere sempre qualcosa per sé stessa. Penso che sia importante fare qualcosa del genere, per coltivare il tuo senso interiore, perché c’è così tanto nel mondo moderno che sta cercando di portarci via da lì. Dai telefoni a Internet, tutti cercano di ottenere un pezzo di te e monetizzarlo. Coltivare il sé interiore è sempre stato lo scopo dell’arte e della letteratura. Ma ora sembra essersi smarrito da qualche parte. Lo trovo inquietante».
Alla protagonista sembra che tutti tranne lei conoscano il segreto della felicità: è così?
«Direi che la felicità oggi è molto sopravvalutata».