la Repubblica, 22 ottobre 2022
Il paradosso di Giorgia Meloni
Eccoci dunque: una donna sola al comando, conquistato senza dispositivi di cooptazione né favoritismi di natura patriarcale. È accaduto, insomma, e per quanto nell’era dell’enfasi si possa diffidare dell’aggettivo “storico” o dell’abusatissimo suo gemello “epocale”, beh, è così.
Nel governo Parri, 1945, furono inizialmente designate sei donne su 24 sottosegretari, una per ogni partito di maggioranza, ma poi non se ne fece nulla. La prima fu nel 1951 Angela Maria Guidi Cingolani, dc. Nei primi 25 governi entrarono appena nove donne; Tina Anselmi ottenne la poltrona di ministro solo nel 1976. Quarant’anni dopo, per iniziativa dell’allora presidente della Camera Laura Boldrini, da un corridoio al primo piano venne ricavata una “Sala delle donne” che ospita le foto-ritratto delle donne elette alla Costituente e delle prime assurte al vertice delle amministrazioni locali, nel governo e nelle istituzioni. Siccome nessuna finora figurava come presidente del Consiglio né presidente della Repubblica, al posto delle foto, ma ugualmente dentro una cornice d’oro, furono installati due specchi ad altezza umana. Ancora oggi chi passa, incoraggiata anche da una targhetta che dice “Potresti essere tu”, può mettersi in posa, sorridere o addirittura fare le boccacce. Ecco, da ieri uno dei due posti è occupato.
Ma poiché quello specchio sta finalmente per essere sostituito dall’immagine di Meloni, almeno in questo giorno ci si risparmia la retorica sul soffitto di cristallo, così come la puntuale disamina degli insulti, i pregiudizi e le discriminazioni anti femminili che nel corso del tempo hanno segnato le vicende del potere in Italia. C’è del resto un libro molto interessante, del giornalista Filippo Maria Battaglia, che fin dal titolo, Stai zitta e vai in cucina (Bollati Boringhieri, 2015), offre il più terrificante campionario aneddotico di machismo, dalla Consulta al grillismo.
Ce n’è voluta, insomma, ma si gira pagina. “Speriamo che sia femmina”: con questo striscione durante l’ultima campagna l’imminente premier venne accolta a Bari: «È bellissimo», fu il suo giudizio. E se nell’estrema foto elettorale si mostrò con i meloni sul petto, è pure accaduto che in un comizio a Caserta le gridassero, «Gio’, tu tieni gli attributi!», al che Gio’, dopo essersi sollevata la blusa e guardando con un sorriso di meraviglia proprio lì tra i pantaloni, «non mi pare proprio — restituì scherzando l’invocazione — forse sono altri che non ce li hanno per niente...».
Restano in effetti tempi complessi, oltre che argomenti variamente contraddittori. Per cui dopo l’incarico si potrà discutere se questo nuovo spazio è destinato o meno a riempirsi di contenuti vecchi, conservatori o persino reazionari; così come già da ora appare evidente che mai Meloni ha pensato di legarsi nel suo impegno ad altre donne, principio cardine del femminismo; e che forse proprio a causa di questo suo non mettere in discussione l’assetto maschile della società è stata vissuta dagli uomini, a cominciare da quelli del suo maschilissimo partito, non tanto come un pericolo, ma come un’opportunità dei tempi.
Eppure ce n’è quanto basta per riconoscere che lei stessa è un prodotto, per così dire, del femminismo: figlia e sorella minore di un movimento e più ancora di un abito mentale che in ogni caso ha reso possibile un percorso come il suo, per la prima volta dimostrando la capacità delle donne di conseguire qualunque risultato. Così, una volta tanto senza distinguere le rispettive culture politiche, varrà adesso la pena di rivolgere, alla rinfusa, un pensiero alle donne che degnamente hanno preparato il terreno, da Camilla Ravera a Rosy Bindi, da Emma Bonino ad Adriana Poli Bortone, passando per Lina Merlin, Nilde Iotti, Susanna Agnelli, Luciana Castellina, Margherita Boniver e tante altre, tralasciando la Seconda Repubblica.
Quanto alle tappe di tale processo, forse è ancora presto per tracciarne uno sviluppo lineare e coerente. Troppo facile perdersi nei meandri di una vicenda in cui la storia politica e il costume finiscono per far cortocircuito con i tratti insopprimibili di un’italianità in cui tutto piega verso l’espressività a oltranza; e la memoria al dunque s’inceppa fra leggi elettorali sessuate e quote rosa retrattili, bunga bunga e politically correct, mammismi e gender fluid mentre la grancassa dei media, ammiccando tra il mitologico e il belluino, esalta amazzoni, tigri, giaguare e pitonesse — come si vede, quest’ultime in sorprendente ascesi istituzionale.