La Stampa, 22 ottobre 2022
Cronaca dell’ascesa di Giorgia Meloni
Un immaginario biopic sulla vita di Giorgia Meloni comincerebbe con le stesse parole che abbiamo trovato ieri nell’elenco dei ministri, utilizzate per ribattezzare i dicasteri del primo governo d’Italia guidato da una donna: natalità, famiglia, merito, sovranità, sicurezza. Sono le parole della destra più classica, la destra official e senza grilli per la testa, conservatrice, tradizionalista, gli avversari direbbero (e hanno detto): reazionaria. Parole che Meloni maneggia dall’età di 15 anni, quando si iscrisse al Fronte della Gioventù e poi al Msi sezione Colle Oppio, che nella geografia delle correnti del partito era storicamente schierata con la maggioranza di Giorgio Almirante contro le suggestioni movimentiste o liberal delle altre componenti.
Ma la parola-chiave della sua esperienza probabilmente è un’altra. Competizione. È la capacità di competere, quando possibile con la forza e se no con l’astuzia, la cifra di una carriera già lunghissima, che ha avuto i suoi momenti-clou nella più classica delle gare politiche, le primarie. Nel 1998 sono le primarie indette da Alleanza nazionale, a Roma, a indicarla come titolare di un collegio provinciale «blindato» e a consentirle di fare il grande salto dalla politica militante alle istituzioni. Quattordici anni dopo, nel 2012, saranno le mancate primarie del Popolo della Libertà a convincerla che lì non c’è storia né futuro, che il castello di Silvio Berlusconi non è scalabile e che è meglio andarsene altrove, tentare l’avventura di Fratelli d’Italia.
Fu, in qualche modo, la sola separazione consensuale mai vista nelle turbolente vicende del centrodestra italiano. A Meloni non toccò il metodo Boffo né il trattamento riservato a Gianfranco Fini, non fu chiamata traditrice come sarebbe successo qualche anno dopo ad Angelino Alfano, per lei non ci furono titoli da «velina ingrata» né le irrisioni e i veleni legati a ogni abbandono della casa di Arcore. Capì, probabilmente, il momento. Silvio Berlusconi, in quella fase (il declino del governo di Mario Monti, la vigilia delle elezioni del 2013) trovava comodo tornare a Forza Italia, liberarsi di un po’ di personale politico e ricostruire una destra separata ma comunque alleata. E chissà che non sia anche la consapevolezza di quell’antica indulgenza, quel placet al partito della «piccoletta» (come la chiamò su un palco comiziale), uno degli elementi che oggi lo fanno infuriare. Mai avrebbe immaginato di ritrovarsela, dieci anni dopo, a dettar legge su ministeri e a esercitare il diritto di veto sui suoi fedelissimi e fedelissime.
Fin dall’inizio, da quel primo cimento elettorale, Meloni e i suoi cominciarono a costruire un racconto diametralmente opposto a quello della vecchia leadership di Gianfranco Fini. Se lui aveva tentato di spingere la destra verso nuovi territori nel nome dell’europeismo, dei diritti, persino della laicità, lei lavorò da subito per riportarla sull’antica rotta: natalità, famiglia. merito, sovranità, sicurezza. Il conflitto, peraltro, esisteva già da molto prima. Lo aveva portato alla luce il clamoroso caso di Eluana Englaro, nel 2009, quando l’atto di forza del governo di Silvio Berlusconi per imporre il proseguimento dell’alimentazione artificiale alla povera ragazza, contro le richieste di suo padre e le sentenze della magistratura, vide Meloni e Fini su barricate opposte. Lui con il presidente Giorgio Napolitano, lei dall’altra parte, con i movimenti pro-vita che accendevano candele davanti a Montecitorio.
Era il gran momento teocon, una filiera che ringalluzzì e ispirò la destra, aprendo relazioni con i conservatori americani che durano tutt’ora. Porteranno molti anni dopo alla fascinazione per Donald Trump, alla presenza di Steve Bannon come superstar sul palco di Atreju, la festa del cuore di Meloni, e poi alla difficoltà a prendere le distanze dall’assalto a Capitol Hill e alla sua selvaggia esibizione di furia popolare (che piacque tantissimo alla base della destra). E tuttavia quell’incertezza è forse la sola sgrammaticatura dell’immaginario law-and-order a cui Meloni ha sempre fatto riferimento. Lei, esperta di piazze e di manifestazioni, mai si è esposta nelle tante caciarate del berlusconismo contro i giudici e le sentenze, mai l’abbiamo vista protestare con le mutande appese sopra i palchi, con le magliette «siamo tutti puttane» e altre surreali invenzioni della curva ultras del Cavaliere.
Forse anche per questa capacità di mantenere una linea dritta, cedendo il minimo possibile ai più sgradevoli obblighi di coalizione, oggi è arrivata dov’è e dall’alto della posizione conquistata può trasformare le sue vecchie parole d’ordine in specifiche denominazioni ministeriali. Il difficile sarà dargli un contenuto e una direzione, ma questo è il secondo capitolo del biopic: nessuno ne conosce ancora la trama.