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 2022  ottobre 21 Venerdì calendario

Biografia di Vittorio Feltri raccontata da lui stesso

Vittorio Feltri, come sta? «Meglio. Mi sa che la sfango».
Qual è il suo primo ricordo?
«La morte di mio padre Angelo. Avevo sei anni. Lui, 43».
Di cosa morì?
«Morbo di Addison. Ora si guarisce con due iniezioni di cortisone. Due ore prima di andarsene volle vedere per l’ultima volta mio fratello Ariel, mia sorella Mariella e me. Per benedirci, tipo patriarca biblico. Non so se mi riconobbe. Nel corridoio vidi una donna di spalle appoggiata al muro, che piangeva e sobbalzava nel suo vestito verde. Era mia madre».
Cosa faceva sua madre?
«Vendeva la pasta Combattenti. La sera mi mettevo alla finestra ad aspettare il suo ritorno. Quando la vedevo arrivare, mi precipitavo di corsa giù dalle scale e la abbracciavo stretta. Poi c’era il maestro».
Quale maestro?
«Si chiamava Angelo Dolci, ed era davvero dolcissimo. Mi veniva a prendere a casa e mi portava a scuola in sidecar, con gli occhialoni da pilota della Wehrmacht. A 14 anni sono andato a lavorare».
Quale lavoro?
«Fattorino: consegnavo chincaglieria, cristalleria, ceramiche. Poi vetrinista. La domenica sera arrotondavo al piano bar Don Rodrigo di Lecco».
Anche pianista?
«Non ero granché, ma usavo gli spartiti della fisarmonica, che sono più semplici. Suonavo le canzoni di Gaber: “Porta Romana bella, Porta Romana...”. Cinquantamila lire a notte. Tanto tempo dopo, con Gaber diventammo amici. Era un ragioniere, come Montale: intelligentissimo. “Destra-sinistra” me la fece sentire mentre la stava scrivendo; “il cesso è sempre in fondo a destra” è mia».
A 14 anni smise di studiare?
«Ricominciai grazie a un prete. Si chiamava Angelo come mio papà, era il direttore della biblioteca di Bergamo alta. Mi passava i libri giusti. Parlavamo solo bergamasco e latino. Ancora oggi, quando devo scrivere un articolo, penso in latino. Il giorno prima della maturità, don Angelo mi diede da tradurre una versione di Tito Livio».
E poi?
«All’esame diedero lo stesso brano di Tito Livio. Non ho mai capito se il prete avesse avuto una premonizione o una soffiata. Poi vinsi un concorso alla Provincia. Quando mi arrivò la notizia bestemmiai atrocemente. Ero dispiaciuto: volevo fare il giornalista».
E lo fece lo stesso.
«Don Angelo mi raccomandò all’Eco di Bergamo. Primo articolo, intervista a un giovane regista del posto: Ermanno Olmi. Poi Nino Nutrizio mi chiamò alla Notte».
Com’era Nutrizio?
«Un esule istriano, scampato alle foibe. Mi dava del voi: “Collaborate all’Eco da quasi quattro anni e non vi hanno ancora assunto; questo mi fa pensare che siate un cretino. Ma vi darò una possibilità”».
La Notte era il regno della cronaca nera.
«Una prostituta di Bergamo fu uccisa a coltellate. Entrai in casa sua, c’era la figlia, una bambina di quattro anni, con una fetta di panettone in mano, seduta nella pozza di sangue della madre... (Vittorio Feltri piange). Scrissi il pezzo. Il giorno dopo comprai La Notte, guadagnai col cuore in gola l’ultima pagina con la cronaca di Bergamo, e non trovai nulla. Umiliato, ripiegai il giornale, e vidi il mio articolo in prima pagina a nove colonne. Una felicità indescrivibile».
Primo amore?
«Da ragazzo vinsi un premio per il miglior tema, e mi mandarono a leggerlo in una classe femminile. Alla fine applaudirono tutte, tranne una. La guardai di brutto e incrociai due occhi stupendi. Era Maria Luisa Trussardi».
Vi fidanzaste?
«Qualche bacino, seduti sul muretto... Poi mi innamorai di un’altra Maria Luisa. Lei rimase subito incinta. Matrimonio riparatore. Vado emozionato in ospedale, e dal reparto maternità esce un’infermiera con due fagottini. “Oh che belle bambine, qual è la mia?”. “Tutte e due” risponde l’infermiera».
E lei?
«Stavo per svenire. Mi fecero una misteriosa iniezione, e passai dalla disperazione all’euforia. Chiamai le gemelline Laura e Saba, come il mio poeta prediletto. Ma la disperazione ritornò in fretta».
Cosa accadde?
«Mia moglie morì per le conseguenze del parto. A vent’anni. Cosa potevo fare con due neonate? Le portai al brefotrofio. Mi guardai attorno, c’erano molte impiegate. Scelsi quella con le gambe più belle. La corteggiai, e la sposai. Ha fatto da madre alle bambine, le sarò grato per sempre» (Vittorio Feltri indica la signora Enoe, che ha preparato il coniglio con la polenta e assiste alla conversazione).
E avete avuto altri due figli: Fiorenza, che fa la farmacista, e Mattia, che è uno dei più importanti giornalisti italiani.
«Ho anche Paolo. È figlio della sorella di mia moglie, ma lo considero mio».
Si è parlato di qualche frizione tra lei e Mattia.
«Ho amato Mattia fin dalla prima volta in cui l’ho preso tra le braccia. L’ho amato quando gli davo come compito guardare la sintesi delle partite alla Domenica sportiva e scriverci su i pensierini. Lo amo adesso. Vorrei solo che mi chiamasse di più».
Lei è cresciuto al Corriere.
«Prima all’edizione pomeridiana, il Corriere d’Informazione. Mi chiamò Gino Palumbo: “Tratti tu il tuo stipendio, o tratto io?”. “Tratta tu, direttore”. Aprii la busta con il contratto in macchina, un Maggiolone, e rischiai il testacoda: un milione! Più del doppio di quel che guadagnavo alla Notte».
Quando arrivò al Corriere?
«Con Piero Ottone, che era un direttore bravissimo. Scrivo il primo articolo, lui mi convoca, si fa trovare seduto sulla scrivania, e mi fa: “Il pezzo va bene. Peccato per quel congiuntivo...”. Mi sento morire. Rileggo l’articolo cento volte, lo faccio rileggere ai colleghi: nessuno capiva dove fosse il congiuntivo sbagliato».
Dov’era?
«Molti anni dopo andai a intervistare Ottone, e glielo chiesi. Sorrise: non c’era nessun congiuntivo sbagliato. Era un trucco che usava per intimidire i novizi».
Com’è diventato di destra?
«Io non sono mai stato di destra. Sono un borghese antifascista e socialista».
Ma battezzò Craxi il cinghialone.
«Giorgio Fattori mi affida la direzione dell’Europeo, che mi accoglie con due mesi di sciopero. Non due giorni; due mesi! Ma tengo duro, e raddoppio le copie. Poi vado all’Indipendente e, sì, invento questa cosa del Cinghialone. Un po’ me ne sono pentito, però funzionava... Capii che Craxi non era un ladro quando andai a trovarlo al Raphael: mi aspettavo una suite imperiale; era la tana di un animale ferito. Poi abbiamo fatto pace. Da Hammamet mi telefonava ogni sera, e gli facevo la rassegna della giornata».
Come Cyrano a Rossana.
«Il naso è quello».
Chi era la sua fonte ai tempi di Tangentopoli?
«Di Pietro. Eravamo amici da quando lui scoprì il mostro di Leffe».
Il mostro di Leffe?
«Di Pietro era pm a Bergamo. Lo prendevano in giro per i suoi modi rozzi, ma capii subito che era un investigatore formidabile. Ruvido, cattivo, scaltro: all’americana. C’è questo signore di Leffe che nel 1983 uccide la suocera, la sotterra in montagna, ammazza moglie e figlia e le mura in casa. Poi scappa in Germania, da dove manda cartoline firmate pure dalle defunte, per sviare le indagini. Ma Di Pietro, da geniaccio qual è, intuisce tutto, fa irruzione in casa, trova i cadaveri. E passa la notizia soltanto a me».
Lei però ruppe con Di Pietro e andò a dirigere il Giornale di Berlusconi.
«Mi offrirono di fare il condirettore di Montanelli, e ovviamente rifiutai. Allora mi proposero la direzione; ma io guadagnavo mezzo miliardo l’anno all’Indipendente, e l’offerta non mi soddisfaceva. Così mi alzai e me ne andai. Mi attardai all’ascensore, nell’attesa di essere richiamato. Cominciai a pensare: questi non mi richiamano mica...».
Chi erano questi?
«Fedele Confalonieri e Paolo Berlusconi. Invece Paolo mi inseguì: “Facciamo 700 milioni?”. Più tardi Silvio mi offrì il 7% del Giornale, compreso il palazzo di via Negri; e quando me ne andai, vendetti tutto. Berlusconi mi ha fatto ricco. Per questo non posso parlarne male...».
Può invece. Qual è il suo bilancio in politica?
«Positivo. Ma ha tenuto comportamenti troppo disinvolti. E in politica a queste cose ti inchiodano».
Lei prese il posto di Montanelli, mandato via in malo modo.
«Ma non abbiamo mai rotto. Di me diceva: è come avere un figlio drogato. Gli stavo simpatico: io ero il boxeur, lui il fiorettista. Non ho mai perso l’abitudine di andare a cena a casa sua, in viale Piave. E sa come l’ho riconquistato?».
Come?
«Montanelli aveva girato un film, “I sogni muoiono all’alba”, ambientato nella Budapest invasa dai carri armati sovietici. Solo che il film non si trovava più. Mia moglie lo recuperò nell’archivio di Rete4; io lo portai a Indro, e passammo una serata bellissima a rivederlo».
Sua moglie lavorava a Rete4?
«Io sono il fondatore di Rete4, che nacque a Bergamo e si chiamava Video Delta. Andava malissimo. Pensai di risollevarla con i film di don Camillo e Peppone. Angelo Rizzoli me li vendette per due lire: il Paese va a sinistra, disse, e Guareschi non lo vuole più nessuno. Invece fu un trionfo. Così la nostra tv finì prima alla Mondadori, poi a Berlusconi».
Sua moglie lavorava per lui?
«Sì; ma non lo sapeva nessuno. Fino a quando un giorno, in Mediaset, Silvio chiese: dov’è la moglie di Feltri? “Sono io” rispose Enoe. Per tutti era la signora Bonfanti, il suo cognome da ragazza».
Lei Feltri ha lavorato anche con Biagi.
«Poteva essere un po’ carogna, ma in tv era il numero uno. Sembrava un parroco. Efficacissimo».
L’imitazione di Crozza le piace?
«Sono io che imito lui».
Seriamente.
«Non mi riconosco. Io non sono così. Non ho nulla contro le donne, le considero migliori di noi, ho sempre avuto medici donne: una donna mi ha operato per il tumore e mi ha salvato. Non ho nulla contro i gay, e ovviamente contro i neri. Le nere poi mi piacciono molto: il mio più grande rammarico è non averne mai sedotta una».
Ma lei sa essere molto duro.
«Non sono duro. È che sono incapace di mentire».
Dicono che ami solo i cavalli.
«Non li frusto mai: non serve. Parlo, e loro capiscono. Soprattutto se appena nati gli hai soffiato nelle narici, le froge. Allora sarà il tuo cavallo per tutta la vita».
Con Salvini avete rotto.
«Lui ha rotto con me, me l’ha scritto per sms. Lo trovo abile, ha portato la Lega dal 4% al 34; ma poi ha perso lucidità».
E lei si è innamorato di Giorgia Meloni.
«Ma non ho mai scritto una riga per compiacerla. Le riconosco qualità di leader. Come capo di governo deve ancora dimostrare tutto».
Quale consiglio le darebbe?
«Non rompere con l’Europa. Approcciarsi con garbo. L’Europa è un grande condominio; e noi siamo l’inquilino moroso. L’ultimo che può dire: da domani facciamo il c... che ci pare».
Ignazio La Russa o Lorenzo Fontana?
«La Russa si atteggia a mussoliniano, ma in fondo è un liberale. Un vitalista che ama le donne. Questo Fontana non è roba per me».
Renzi?
«Molto bravo. Abolire una Camera era giusto. Però i governi perdono sempre i referendum».
Cos’è per lei Milano?
«Il cervello del Paese; ma non ha gambe, né pugni. Non sa imporsi. È sottorappresentata nella politica e nella cultura».
E la Lombardia?
«A Milano sono un po’ fighetti; infatti votano Sala. Gli altri lombardi sono più ruspanti. Mi piacerebbe candidarmi alle prossime regionali. Fare qualcosa per la mia piccola patria».
Cosa c’è dopo la morte?
«Il cimitero. L’uomo ha bisogno di pensarsi immortale. Ma è un’illusione».