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 2022  ottobre 21 Venerdì calendario

Biografia di Riccardo Fogli raccontata da lui stesso

«Quando mio fratello Luciano fu promosso in terza media, mamma Meri e papà Dante gli regalarono una piccola carabina ad aria compressa, che caricavamo con i pallini di piombo raccolti davanti al chiosco del tiro a segno delle giostre, quelli ancora tondi, altrimenti li si strofinava con la carta vetrata e tornavano buoni. Sparavamo ai barattoli. Pum, pum. Solo che si inceppava di continuo e per sturarla usavamo la stecca dell’ombrello».
Perché ho la sensazione che non andò a finire bene?
«Un giorno, seduti sui gradini di casa, stavamo appunto cercando di liberare la canna, quando la carabina sparò verso terra e il piombino picchiò contro un sasso, rimbalzò e finì sulla spalla del vicino che zappava l’orto e cominciò a gridare e imprecare. “Potevate accecarmi, o bischeri!”. Ovviamente il fucilino ci fu sequestrato. E in cambio arrivò una chitarra che per anni restò lì a fare le ragnatele, finché un giorno strappai due corde e la usai per imparare a suonare il basso», racconta Riccardo Fogli, 75 anni compiuti oggi, ancora fiero delle prodezze balistiche di gioventù. Quasi come della carriera di frontman e bassista dei Pooh, poi solista dal 1973 e infine nel 2015, dopo 42 anni, ancora lì a cantare Piccola Katy e Pensiero con Dodi, Red, Roby e Stefano per celebrare insieme i 50 della band («L’emozione più bella»). E nel mezzo la vittoria a Sanremo con Storie di tutti i giorni (1982) «per tutti quelli così come noi, senza trionfi, né grossi guai».
Non so i guai, ma il trionfo al festival lo portò a casa.
«I guai erano arrivati prima. Non avevo più soldi, solo cambiali. Il produttore Alfredo Cerruti, ex fidanzato di Mina, mi prestò 5 milioni di lire per comprarmi uno smoking, due camicie e due paia di scarpe. “Almeno fammi fare bella figura, guagliò”. Che poi arrivare primo a Sanremo non è mica come vincere al SuperEnalotto, non ci diventi ricco, al massimo hai la possibilità di lavorare: infatti feci 150 concerti. Ma dopo quattro anni stavo da capo a dodici».
Ancora in bolletta?
«Nessuno si ricorda mai di chi ha vinto a Sanremo. Mi serviva un po’ di promozione. La mia discografica di allora, Caterina Caselli fu schietta: “Signor Fogli, i giornalisti dicono che si fa fatica a intervistarla, troppo bravo e bello per risultare pure intelligente. Non ha nemmeno una cicatrice sulla faccia. E io: “Se crede mi butto da cavallo”».
Da ragazzino ha avuto una prof terribile.
«Quella di italiano, ricca e snob. Aveva l’abitudine di annusarci il collo, forse per controllare che ci fossimo lavati. Io ero povero, non sapevo di pulito, perché a casa il detersivo si usava di rado, come il sapone profumato. Il bagno si faceva al sabato, nella tinozza, prima io, poi mio fratello, quindi i nostri genitori. Mamma mi controllava le orecchie e ogni tanto mi spruzzava del dopobarba di papà».
Ci restava male?
«Non mi accorgevo nemmeno di essere povero, ero felicissimo, spensierato. Solo che il pomeriggio andavo all’oratorio e non potevo giocare a pallone per non rovinare le scarpe buone, che erano state di mio padre e di mio fratello. Per non disubbidire a mamma giocavo a ping pong, nel 1963 sono stato campione italiano. E il primo calcio ad un pallone l’ho dato a 35 anni».
Cresciutello.
«Ero al festival di Saint Vincent. Gianni Morandi cercava l’undicesimo per una partita con i camerieri dell’hotel. Mi chiese: “Ma tu giochi a calcio?”. “Se vuoi ci provo”. E comprai gli scarpini. Mi scoprii difensore di fascia destra. E alla fine Gianni, Mogol e Sandro Giacobbe mi presero nella nazionale cantanti. Il mister nei ritiri mi metteva a palleggiare contro il muro. E fu allora che ho scoperto la passione per la corsa».
Una folgorazione.
«Dopo mezz’ora in campo ero pieno di acido lattico. Capii che dovevo allenarmi. Correre è bello, ti dà felicità e migliora anche il fiato per cantare. Ho fatto due maratone di New York».
E la massacrante 100 km nel deserto del Sahara.
«Che poi sono 119. L’ho affrontata tre volte. Si parte da Djerba, 150 km di auto fino alla porta del deserto tunisino. Quattro tappe da circa 30 km, partenza alle 8 del mattino, arrivo dopo circa quattro ore, un centinaio di concorrenti, non tutti ce la fanno. Mi sono ustionato tutto da una parte sola. Ogni giorno c’era il Toto-Fogli. Gli altri partecipanti scommettevano: “Oggi Riccardo non arriva”. “L’hai visto ieri? Sarà tra gli ultimi dieci”. Ogni maratoneta riceve un kit di sopravvivenza: fischietto, cerini antivento, acqua, cerotti, crema solare, stantuffo succhia-veleno».
Veleno?
«Sì, tocca stare attenti agli scorpioni che di notte ti si infilano nel sacco a pelo. Al risveglio bisogna muoversi con cautela, senza movimenti bruschi e poi scuoterlo per benino. Lo stesso quando si va al bagno nella sabbia. Ti suggeriscono di fermare la carta igienica con un sasso, perché non voli, ma sotto al sasso spesso si nasconde uno scorpione».
Da ragazzetto per due anni ha lavorato alla Piaggio, come racconta nel libro-disco Predestinato (Metalmeccanico).
«Prima ancora facevo il truccatore di gomme d’aeroplano. Per recuperarle, dove c’era un taglio sul battistrada, lo incidevo con una lama, ci passavo il mastice e poi vulcanizzavo. Ogni tanto prendevo certe scosse elettriche. Però ho imparato che se sollevi gli alluci le senti di meno. A 15 sono entrato in Piaggio, come papà. Ero il postino interno, smistavo la corrispondenza».
Ed è sopravvissuto al trattamento d’urto riservato ai novellini.
«Già, l’usanza di spennellare le parti basse con la colla. Mi salvai impugnando due coltellacci per spaventare chi voleva provarci, funzionò. Quando ci siamo trasferiti a Piombino, con mio fratello abbiamo aperto un’officina di gommista. Un fallimento, i clienti non pagavano, ci siamo riempiti di debiti».
A Piombino suonava con gli Slenders, basso e voce solista.
«Eravamo belli, giovani e capelloni, con pantaloni stretti, giubbotti, camicie di pizzo sul petto nudo, beat più che rock, giravamo l’Europa, ai concerti mi arrampicavo sugli amplificatori».
Finché, nel 1966, li mollò per i Pooh.
«Ci avevano scritturato al Piper di Milano. Dopo qualche settimana arrivarono anche i Pooh, che si erano messi insieme da tre mesi. Roby Facchinetti e Valerio Negrini mi dissero che gli serviva un cantante bassista. Con gli Slenders tanto eravamo alla canna del gas, senza una lira. Accettai, ma in cambio loro si impegnarono a ricomprarci il camioncino rosso che non avevamo ancora finito di pagare a rate».
Restò con loro fino al 1973.
«Anni fantastici, rivoluzionari, la musica dei Pooh era diversa, innovativa».
L’amico del cuore chi era?
«Roby Facchinetti, il mio fratellone, il mio riferimento affettivo, allora e adesso. Eravamo i due “stranieri” – i Pooh si erano formati a Bologna – e dividevamo una stanzetta di una pensione con due letti e un lavandino. Ci raccontavamo tutto e insieme cercavamo di rimediare quelle 200 lire per mangiare».
Non ci fu rancore tra voi quando lei se ne andò per Patty Pravo?
«No, però ho sofferto molto la mancanza di un abbraccio. Di qualcuno che mi dicesse: “Ricky, dai, pensaci bene, sei sicuro?”. Che mi trattenesse. Non sono stato io a sbattere la porta. Fu il nostro produttore a farci dividere, convinto che la mia storia d’amore con una cantante così famosa potesse nuocere al gruppo. “Siamo rovinati”, ci annunciò tragico dopo i primi articoli sui giornali».
L’incontro fatale.
«Nel 1972, io e Nicoletta eravamo due ragazzi. Ci presentarono. Ci guardammo. Nel giro di qualche ora eravamo nella stessa camera».
E lei mollò Viola Valentino, sua prima moglie, che una sera al Roxy Club di Milano l’aveva conquistata con sei parole. Lei la agganciò con un classicissimo: «Ci siamo già visti io e te?» E Viola rispose: «Chiamami Peroni, sarò la tua birra».
«Ah Viola, Violetta... allora ci stavamo già separando, dopo ci abbiamo riprovato ma non ha funzionato. Le voglio un gran bene».
Il matrimonio con Patty, celebrato da un fabbro scozzese.
«Era il capovillaggio di Gretna Green, un paesino sperduto tra le montagne. Con la mano destra sull’incudine ci giurammo eterno amore. Io portavo un cappello a cilindro. Ma di quei tre o quattro giorni ho ricordi avvolti nella nebbia».
Durò un paio d’anni.
«Tutto finisce, anzi cambia. L’ho rivista nel 2013 a Tale e Quale, i mitavo proprio lei» (fa la voce di Patty, identica).
Sua moglie Karin, quasi 32 anni di meno, l’ha conosciuta nel 1995 ma sposata nel 2010. Ci ha riflettuto.
«Perché aveva solo 16 anni e io ero ancora impegnato con Stefania, la mia seconda moglie. Suo padre l’aveva trascinata controvoglia a un mio concerto vicino Roma. Karin mi vide e pensò che fossi l’uomo più bello che avesse mai visto... (ride) ma che avevo troppe donne intorno. “Aspetterò che invecchi”, si disse. E lo ha fatto. Al secondo appuntamento l’ho portata in gioielleria a scegliere l’anello».
Ha dichiarato una singolare passione per le motoseghe.
«Perché amo gli alberi, per me sono come persone, mi preoccupo se i rami crescono troppo, se li soffocano le ortiche o l’edera. In giardino ho due castagni, hanno trecento anni, ogni tanto li abbraccio, gli voglio bene».