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 2022  ottobre 20 Giovedì calendario

Le rose del ventennio (ovvero le donne fasciste al tempo del fascismo)

Da Le rose del ventennio di Gian Carlo Fusco, Sellerio, Palermo 2000

Prima della marcia su Roma, le donne fasciste erano poche. Si trattava, in maggioranza, di madri, sorelle, fidanzate, mogli o amanti di squadristi, le quali, spesso, non erano neppure tesserate. La loro adesione al movimento aveva un carattere esclusivamente domestico. Si riunivano a veglia per confezionare i gagliardetti delle varie «disperate» e delle diverse «menefrego», e nonostante palpitassero continuamente per la sorte dei congiunti, ricamavano con cura le teste di morto sul petto delle camicie nere. Poi c’erano le intellettuali. La fine della guerra aveva lasciate disoccupate una quantità di signorine mature e di fervide signore, le quali durante il conflitto avevano fatto le madrine dei soldati e degli ufficiali di complemento, le crocerossine, le visitatrici e le speditrici di pacchi. Molte erano poetesse d’ispirazione nazionalista, e le più anziane avevano debuttato al tempo del generale Baratieri. Superata l’epidemia di spagnola, cominciarono a interessarsi all’attività delle associazioni combattentistiche e, infine, a quella di quei cari «ragazzacci» che saltavano sui camion per andare a pestare e purgare la democrazia suburbana. Quelle, invece, che partecipavano di fatto alle spedizioni punitive, sedute sulle paratie degli autocarri, con tanto di manganello e di fez appoggiato sui riccioli, costituivano una percentuale minima. Benché ufficialmente elogiate per l’ardimento e la fede, i loro atteggiamenti spavaldi e la spregiudicatezza dei modi erano sotto sotto criticati anche dalle fasciste di tipo casalingo. Era inoltre inevitabile che da quella promiscuità guerriera venisse fuori, ogni tanto, qualche gagliarda passione, accompagnata da scandalo. Man mano che il movimento fascista andava assumendo la fisionomia di partito responsabile di fronte all’opinione pubblica, quelle complicazioni passionali fra squadristi di sesso diverso diventarono sempre più imbarazzanti. Fu così che Il Popolo d’Italia del 10 gennaio 1922 pubblicò due mezze colonne in corsivo, nelle quali si fissavano i limiti generali dell’attività femminile fascista, la quale era mobilitata per le iniziative a carattere benefico e didattico, per la costituzione di centri ginnastici e culturali, per l’assistenza dell’infanzia e la propaganda a domicilio. Nelle ultime righe, il corsivo raccomandava alle fasciste di non «occuparsi di politica in senso diretto» e di «rinunciare ad atteggiamenti ed azioni, la cui energia meglio si adattava ai maschi». Qualche settimana dopo, il gruppo femminile di Roma si dava, primo in Italia, uno statuto in undici paragrafi. L’undicesimo precisava che le donne fasciste non erano delle «politicanti», ma delle «vestali», sottoposte a una «disciplina interiore», non meno rigida e importante di quella militare riservata agli uomini. Benché il segretario generale del movimento, Umberto Pasella, diramasse alle segreterie provinciali una circolare con la quale si consigliava di seguire l’esempio delle fasciste romane, quasi dappertutto le donne squadriste ebbero la meglio sulle «vestali». Nella tarda primavera del ’22, in un piccolo centro della provincia di Udine, un gruppo di socialisti tentò di vendicarsi d’una tremenda bastonatura occupando la sede del fascio. Proprio quel pomeriggio i fascisti erano partiti per una spedizione, capitanati dal famoso manganellatore Gino Covre. Espugnare e sconvolgere il loro «covo» sarebbe stata facile impresa, se improvvisamente non ne fossero uscite, al grido di «a noi!», una trentina di donne, armate di bombe «sipe» e di bastoni piombati, munite di elmetti e di mollettiere, le quali si buttarono sul nemico e lo costrinsero a ripiegare. Quelle amazzoni erano comandate da una signora Scarpa, la quale, più tardi, fu dissidente e ritornò fuori durante la repubblica di Salò come tenente colonnello delle Ss ausiliarie.
 
Quasi contemporaneamente all’impresa delle donne udinesi, a Patti (Messina), Concettina Nieri inaugurava il gagliardetto di quella sezione fascista, pronunciando un discorso pieno di fuoco etneo. «Quando suoneranno i vespri fascisti», disse, fra l’altro, la signora, «io stessa guiderò le camicie nere di Patti, come fece Giovanna d’Arco». Nell’autunno, infatti, la signora Nieri fu mobilitata con gli altri: ma era incinta di sette mesi, e non poté fare granché. Per la marcia su Roma, le donne ebbero, generalmente, l’incarico di cooperare all’impresa in qualità di vivandiere, magazziniere, telefoniste di fiducia e dattilografe ai centri di mobilitazione. Soltanto un centinaio parteciparono alla marcia come forza armata. Fra le più gagliarde e combattive c’erano due sorelle liguri, le Baschetto, una delle quali si era fatta gli orecchini con due denti sputati da una manganellata, le tre Campolongo, istriane, che in segno d’italianità erano solite portare le mutande tricolori, e una signorina Gujom, veneziana, famosa per aver incoraggiato la corte d’un deputato popolare, al solo scopo di ridergli in faccia al momento supremo.
Dopo la marcia, naturalmente, affluirono nuove iscritte, accolte con un certo disprezzo da quelle della prima ora. Molte che avevano fiancheggiato il movimento in una posizione essenzialmente domestica, presero la tessera che, fino a quel punto, era la medesima degli uomini. Nel ’24 i gruppi femminili erano già abbastanza grossi e organizzati, quando l’affare Matteotti venne ad arrestarne e perfino a involverne lo sviluppo. Parecchie tessere furono restituite, altre finirono in fondo a un cassetto, non poche nella spazzatura. Praticamente restarono sulla breccia le iscritte più spregiudicate e pugnaci: quelle stesse che il fascismo aveva già cominciato a isolare e a smaltire per non urtare i pregiudizi delle classi medie. Quando Farinacci prese in mano la segreteria del partito con disperata energia, i gruppi femminili del cremonese diventarono i più agguerriti della penisola. Ne assunse la direzione una professoressa di lettere, la quale fece pervenire al gerarca ferroviere un messaggio, firmato da quasi tutte le gregarie, nel quale si diceva, in sostanza, che le fasciste di Cremona si consideravano «in ogni senso» a sua disposizione. Nell’inverno del ‘25, dopo le leggi straordinarie e lo scampato pericolo, le disertrici seguirono l’esempio maschile e si riavvicinarono pian piano al partito. Le fedelissime fecero accanita opposizione a quel rientro, e, in qualche caso, passarono perfino alle vie di fatto. A Cremona, la moglie di un avvocato, che si era eclissata durante la Quartarella, fu pubblicamente sculacciata, senza veli. Ma i risentimenti e le picche andarono rapidamente attenuandosi. I grossi gerarchi, convalescenti della grave crisi matteottiana, erano decisi a fare una politica conciliante. Bisognava approfittare del momento per vincolare più strettamente la piccola e media borghesia, impressionate dalla nuova vittoria fascista. Sarebbe stato un grave errore insistere sui motivi della «purezza», della «vigilia» e della «fede». Nel 1926, anzi, si riaprirono le iscrizioni. Era l’anno francescano, e i fascisti aderirono con fervore alla celebrazione del «più santo degli italiani e più italiano dei santi». Impressionate da quella partecipazione, molte donne cattoliche decisero d’iscriversi alle sezioni fasciste. Poco alla volta anche le borghesi più in vista presero la tessera, per rafforzare la posizione dei mariti e per far dimenticare le vecchie diffidenze. Era giunto il momento favorevole per operare una radicale trasformazione dei fasci femminili, e farne uno strumento di penetrazione e di compromesso. L’incarico della riorganizzazione fu affidato al nuovo segretario generale del partito, Augusto Turati, che era considerato il più affascinante dei gerarchi, soggiogatore di donne, uomo dal guanto di velluto sulla mano d’acciaio. Turati cominciò col mettere nell’ombra la signora Mayer-Rizioli, superdecorata di guerra, la quale era troppo ortodossa e impegnativa per le nuove iscritte, cosi morbide e raffinate. A tenere il collegamento fra i fasci femminili e la segreteria del partito fu messa la signorina Angela Moretti, di Brescia, ammiratrice fedele di Turati, la quale non aveva grandi né precisi meriti, ma vestiva con eleganza, parlava squisitamente e adoperava profumi francesi. Contemporaneamente, alla periferia furono aboliti i «triumvirati», ai quali era stata fino allora affidata la direzione delle sezioni e si nominarono delle «delegate» provinciali non più dipendenti dai federali, ma facenti capo direttamente a Roma. La nuova carica doveva essere conferita, possibilmente, a signore della distinta società, a prescindere dalla anzianità d’iscrizione e dai meriti rivoluzionari. Una circolare di Turati ai federali consigliava di scegliere fra le dirigenti delle maggiori opere benefiche, tra le presidentesse delle congregazioni di carità e degli asili. Per contro, si rammentava che le vecchie squadriste e le ardite antemarcia andavano assolutamente tenute da parte. In omaggio alle direttive, i federali cominciarono a tastare il terreno e spesso riuscirono nel loro intento. Si ebbero delegate che ricevevano la nomina insieme alla tessera. Una baronessa ligure ricevette, anzi, la nomina prima della tessera. Tutto ciò suscitò il risentimento delle vecchie gregarie, molte delle quali divennero dissidenti, cominciarono a svelare gli altarini della vigilia, fecero delle scanagliate negli uffici dei federali. Quelle manifestazioni d’indisciplina venivano come il cado sui maccheroni, già che permettevano di espellere elementi che diventavano ogni giorno più indesiderabili. Verso la fine del ’27, la fisionomia del fascio femminile era quasi completamente trasformata. In occasione del28 ottobre, Mussolini decise di ricevere a Palazzo Venezia tutte le delegate provinciali. Era la prima volta che il duce si avvicinava alle organizzazioni femminili come a una forza a sé stante. Il giorno 26, le rappresentanti dei fasci erano riunite davanti alla signorina Moretti, la quale doveva impartire qualche disposizione generale, prima che Turati venisse a intrattenere le gerarche personalmente. Sedute al centro dell’assemblea c’erano le delegate di Milano, Napoli e Palermo, le quali erano forse le tre maggiori conquiste della politica turatiana. Si trattava, infatti, di tre principesse: la Trivulzio, la Linguaglossa, figlia di Crispi e la Tasca di Cutò. Quest’ultima, ch’era la più vecchia delle convenute, essendo afflitta da totale sordità, si era portata una giovane segretaria che prendeva continuamente appunti.
Attorno alle tre gentildonne, stavano la professoressa Casagrande di Padova, primaria chirurga d’ospedale, disinvolta e ossigenata; Wanda Gorjoux, di Bari, moglie del direttore responsabile del «Giornale delle Puglie»; Maria Pezzé-Pascolato, scrittrice per la gioventù, delegata di Venezia; la moglie dell’ammiraglio De Riseis, genovese; la rappresentante di Bologna, signorina Bartolini, fuoricorso di medicina, graziosa e un po’ scettica. Le delegate sarde erano le meno eleganti e le più impacciate. Quella di Teramo, ch’era la più giovane del gruppo, indossava un piccolo abito a giacca color blu, arrossiva spesso e se ne stava timidamente in un angolo. La signorina Moretti fu gentile con tutte, e in modo particolare con le principesse. Nonostante il tono cameratesco dell’assemblea, la principessa Linguaglossa conservava il suo profilo tagliente e il suo distaccato accento meridionale. La segretaria di Turati non sapeva sottrarsi completamente a quella suggestione aristocratica. Turati, che arrivò mezz’ora dopo, entrando a passo lesto da una porta laterale, ebbe grande successo. Parlò stando appoggiato con le reni allo scrittoio stile Rinascimento. Aveva la giacca scura e i pantaloni a rigolini. I suoi occhi si fissavano penetranti sulle delegate. Quando voltava la testa, già quasi calva, il suo grosso naso appariva controluce, imponente. Egli parlò con voce rapida e incisiva, marcando le esse e senza eccessiva raffinatezza. L’uditorio sembrava ipnotizzato. Perfino la principessa di Cutò, che non sentiva una sillaba, n’era incantata. Turati raccomandò la disciplina, le opere di assistenza, l’istituzione dei corsi per assistenti sanitarie, la parsimonia e, alla fine, diede istruzioni per la visita del giorno dopo a Palazzo Venezia. Quando ebbe parlato, non si fermò neppure un minuto a far cerimonie. Salutò romanamente e uscì, accompagnato fino alla porta dalla signorina Maretti, visibilmente emozionata. Le delegate, dalle più illustri alle più oscure, erano ormai conquistate. Si confidavano le loro impressioni con entusiasmo di giovinette, mentre la signorina Moretti le ascoltava con una espressione fatta di orgoglio e d’indulgenza.
Il giorno dopo, le delegate, accompagnate dalla signorina Moretti, andarono a Palazzo Venezia. Quelle di alto lignaggio e di maggior possibilità si erano messe vestiti adatti a una cerimonia solenne. Le principesse erano abbigliate come per un ricevimento a corte; la Gorjoux aveva una giacca di pelliccia di gran prezzo e un mazzo di violette sul petto; Maria Pezzé-Pascolato, pur conservando l’abito nero, piuttosto modesto, del giorno avanti, s’era messa un altro cappello, guarnito di perline luccicanti. La giovane delegata di Teramo aveva il medesimo abituccio a giacca ed era più confusa del solito. Le sarde, che chiudevano il gruppo, apparivano irrigidite dall’emozione.
Prima di essere ammesse alla presenza di Mussolini, la signorina Moretti, insieme a due funzionari napoletani, controllò, carte alla mano, che tutte le presenti fossero effettivamente quelle che dovevano essere. Passarono una decina di minuti, poi le signore furono messe in fila indiana e introdotte al cospetto del duce. Costui stava lontano, dietro la sua scrivania d’angolo, con le braccia incrociate e la bocca dura. Quando le delegate furono entrate per circa una metà, si alzò, fece un leggero sorriso e avanzò verso il centro della sala. Indossava un composé diplomatico, grigionero. Senza una parola (Turati aveva raccomandato il silenzio), le delegate si disposero a semicerchio. Le più giovani, quella di Teramo, le sarde, le meno importanti stavano dalle parti; le tre principesse nel mezzo, avendo ai fianchi le altre. La signorina Moretti aspettò qualche momento, poi si fece avanti reggendo sulle braccia un gran mazzo di rose scarlatte; quelle che Mussolini preferiva. «Duce», disse la signorina, con voce un po’ soffocata, «vi presento le delegate provinciali dei fasci, venute da tutta Italia per rendervi omaggio. A nome di tutte, vi offro queste rose». Mussolini accolse il mazzo con mollezza di gesti, lo sollevò diritto fra le mani e vi tuffò dentro la faccia, aspirando. Poi gli occhi, spalancati e aggressivi, riaffiorarono da tutto quel rosso e si puntarono sulle fasciste. Passarono dalla Linguaglossa alla Trivulzio, dalla Casagrande alla Bartolini, dalla Pezzé-Pascolato al gruppetto scuro ed immobile delle sarde, da quella di Teramo alla Tasca di Cutò, la quale non sentiva una parola, ma sorrideva benignamente. «Vi ringrazio» disse alla fine Mussolini, reprimendo con le labbra una certa commozione. «Queste rose hanno per me un significato speciale, perché io considero le donne come il fiore della vita». Fece una pausa. «Sono lieto di conoscervi di persona. Voglio ringraziarvi a nome del fascismo per l’opera che giornalmente svolgete. Opera di carità e di pace». Andò alla scrivania, levò alcuni fiori, già un po’ scoloriti, da un vaso di cristallo e vi mise le rose. Poi tornò fra le delegate, tenendo in mano una rosa che aveva sfilata dal mazzo. Restò qualche momento silenzioso, odorandola a tratti, intensamente. Se la passò anche sulla bocca, con leggerezza. La premette con forza sulle labbra. Tornò ad annusarla, imprimendole un movimento rotatorio. Gli occhi, nei quali la pupilla lampeggiava al centro della cornea, erano posati, con intensità distratta, sulla magnifica spilla di brillanti che la principessa di Cutò portava al centro di una stola di pelliccia. La signora palermitana sorrideva senza imbarazzo. Teneva congiunte sul grembo le mani guantate di bianco,
con tre righe nere ciascuna. «Quando tornerete alle vostre città», disse improvvisamente il duce, «dite alle donne che quella che soprattutto mi sta a cuore è la pace. Non farò mai la guerra. L’unica arma della quale mi voglio servire è l’aratro. Voi, donne fasciste, mi aiuterete a mantenere la pace e a farla amare dal popolo italiano». Fece ancora una pausa, riodorando la rosa che aveva perso qualche petalo. «Un altro problema importante è la demografia. Ho bisogno di nascite, molte nascite. Desidero che ogni anno il paese si arricchisca di vite nuove e sane». Voltò lo sguardo dalla parte della giovane di Teramo, che diventò rossa, mentre la bolognese Bartolini abbozzava un sorriso. «Sappiate che se un giorno capitasse in Italia quello che adesso succede in Francia, vale a dire che il numero delle bare supera quello delle culle, ebbene, prenderei misure definitive. Draconiane». Le labbra di Mussolini si arricciarono con un’aria di spasso rattenuto. Dopo aver saettato attorno un’occhiata terribile, il duce soggiunse: «Ho detto draconiane». Le delegate provavano un senso di timore e di abbandono. La principessa Linguaglossa, che aveva nelle vene il sangue di Crispi, era la meno scossa di tutte. Poi Mussolini parlò senza interruzione, con la rosa pendoloni lungo la gamba, dell’opportunità di vegliare sulle fasciste iscritte all’Azione Cattolica, affinché questo secondo carattere non finisse col sommergere il primo. «Capisco le credenti», disse, «ma diffido delle bigotte. Bisogna tener d’occhio la sacrestia». Si trattava di una dichiarazione piuttosto delicata, ma per fortuna la più religiosa delle delegate, la principessa di Cutò, non sentiva una parola e continuava a sorridere. Il duce disse ancora qualche cosa, diede un’ultima fiutata alla rosa, poi, di scatto, come un gladiatore, salutò romanamente. Prese alla sprovvista, le fasciste risposero al saluto con un certo disordine. Le tre principesse sollevarono il braccio ad altezze diverse, ma tutte a mezz’aria, come se, in fondo, si aspettassero il baciamano. Mussolini era già lontano, in piedi, dietro la scrivania, che guardava un fascicolo aperto, con tre rughe fra gli occhi. Stringeva la rosa nel pugno e ne faceva cadere i petali, a uno a uno, distrattamente. Le delegate, in fila indiana, lasciarono la sala del Mappamondo. La sera, all’Hotel Milano, finita la cena, esse si scambiavano le loro impressioni su Mussolini. «È un uomo irresistibile» disse la professoressa Casagrande. Tutte le diedero ragione.
Il 1928 fu l’anno del gran lavoro. C’erano in giro molti disoccupati, e il fascismo era costretto a fare leva sulla carità per rimediare alla propria insufficienza sociale. Le delegate, accarezzate nella vanità e nell’orgoglio, si fecero in quattro per organizzare le befane fasciste, l’assistenza invernale e le colonie estive. Le più ricche ci rimettevano, talvolta, di tasca propria. Turati, con le sue maniere energiche, ma sempre un po’ galanti, riusciva a ottenere il massimo rendimento. Nel ’30, quando il segretario del partito fu improvvisamente silurato, diverse delegate, che dopo l’incontro di Roma erano diventate sue fanatiche ammiratrici, andarono di loro iniziativa alla capitale, per sapere che cosa fosse successo con precisione. Certune erano perfino pronte a dimettersi in atto di protesta. Furono ricevute privatamente dalla signorina Moretti, anch’essa sul punto di andarsene, la quale, con gli occhi velati di tristezza, raccontò loro tutta la storia. Una mattina Turati era andato a rapporto straordinario da Mussolini. «Duce» gli aveva detto. «li popolo dà segni di stanchezza». Mussolini lo aveva fissato un momento, a labbra serrate. «Spiegatevi» aveva ingiunto alla fine. «La gente divide i vostri collaboratori in due categorie: i ladri e i fessi». «Questi sono pettegolezzi!» aveva strillato il duce. «Domattina voglio la nota dei fessi e quella dei ladri». L’indomani Turati era tornato dal capo e gli aveva portato le due liste dattilografate. In testa a quella dei ladri aveva messo Costanzo Ciano, primo dei fessi se stesso. Gli urli di Mussolini s’erano sentiti lontano, insieme ai colpi sul tavolo. «Rassegnatemi le vostre dimissioni».
 
Il racconto della signorina Moretti non fece che aumentare l’ammirazione delle delegate, le quali giudicarono romantico il gesto del gerarca bresciano. Alcune altre furono liquidate qualche tempo dopo con vari pretesti. La professoressa Casagrande lasciò la carica in seguito a una grana amministrativa con Marinelli, che le delegate in genere non potevano soffrire e chiamavano Ciccio, perché somigliava notevolmente al famoso personaggio del «Corriere dei Piccoli». Qualche mese dopo se ne andò anche la Pezzé-Pascolato, umiliata dal fatto che l’amministrazione delle sezioni femminili era stata passata alle federali. «Cossa i dirà i veneziani quando i vegnerà a saver che i gh’à tolto i bezzi alla povera Maria? I dirà che la Maria gh’à fatto la cresta sulla spesa! No, me rincresse, ma non posso restar!». Così singhiozzava la buona donna a Roma, davanti a un Marinelli seccato e refrattario.
Poi, nonostante il Concordato, vennero le polemiche e gli urti coi gruppi cattolici. Carlo Scorza, dirigente dei fasci giovanili, volle riesumare lo squadrismo. Qualche circolo bianco fu invaso. li parroco di Valdottavo, in Lucchesia, fu pubblicamente preso a schiaffi. Le fasciste ch’erano anche iscritte all’Azione Cattolica cominciarono a protestare e a minacciare di andarsene, consigliate e incoraggiate dai parroci. Attivarono allora alle delegate delle circolari, a carattere «riservatissimo», nelle quali si diceva di stringere i freni e di mettere le iscritte davanti alla scelta fra fascio e sacrestia. Le parole dette da Mussolini nel ’27 tornavano di attualità. Ma c’erano i Patti lateranensi, e non era facile, alla periferia, prendere una posizione precisa. Le delegate più animose e zelanti ci si provarono, ma quando il duce dopo la minacciosa enciclica papale fece macchina indietro, esse furono sacrificate senza misericordia sull’altare del Concordato. Le tre principesse, che avevano annusato il vento ancor prima di quei frangenti, se ne erano andate al momento giusto. La Gorjoux, che ormai pilotava una bella macchina e si vestiva da grandi sarti, si era gettata completamente nel giornalismo. La giovane delegata di Teramo, la quale era apparsa di recente assai meno impacciata, stava per sposare un pezzo grosso. Una decina se ne andarono perché non avevano fiducia in Giuriati, nuovo segretario del partito. «Che differenza con Turati» diceva la bolognese Bartolini, che non si era ancora laureata. «Questo è un tipo mollo. Sembra appena ripescato da un naufragio». Allorché fu nominato segretario Achille Starace, le delegate del ’27 erano ridotte ad appena cinque o sei. Cominciava, del resto, il terzo periodo dei fasci femminili. Nel 1935, gli aratri, le culle e le rose rosse non erano più al centro del programma di Mussolini. Le delegate ebbero l’incarico di raccogliere le fedi, di propagandare fra le tesserate lo spirito delle donne spartane. Il composé nerogrigio del duce pendeva nell’armadio di Villa Torlonia, sostituito dalle varie uniformi militari.
Starace portò anche fra le fasciste un piglio bersaglieresco. Le iscritte ebbero una divisa e anche le più anziane si dovevano adattare al «tu» delle gerarche. Nelle campagne s’erano venute inquadrando le massaie rurali e dalla scuola d’Orvieto uscivano quelle risolute insegnanti di educazione fisica che una volta destinate in provincia diventavano un po’ le specialiste dell’organizzazione femminile. Man mano che il fascismo si avvicinava alla sua rovinosa conclusione imperialista, il fascio femminile acquistava caratteri sempre più burocratici. Qualche mese prima dello scoppio della guerra, le delegate ebbero uno stipendio, che andava dalle tre alle cinquemila lire, a seconda dell’importanza del capoluogo. Le fasciste, sopravvenuto il conflitto, furono messe ai posti di ristoro, nelle stazioni, per distribuire aranciate e pacchi contenenti torroni, pettini e indumenti di lana ai militari di passaggio sulle tradotte.
Ogni soldato doveva anche ricevere una fotografia del duce in uniforme di primo maresciallo, ma più tardi, quando si cominciarono a trovare quelle fotografie buttate e gualcite lungo la ferrovia e nelle ritirate, venne dato ordine di sospendere la distribuzione. Qualche donna fascista fu anche sottoposta a inchiesta per aver raccomandato ai soldati la prudenza anzi che l’ardimento, al cospetto del nemico. Difatti, specialmente dopo i primi bombardamenti e le prime batoste, le fasciste andavano perdendo lo spirito spartano e ridiventavano donne comuni, impaurite dalla sorte dei loro congiunti alle armi, desiderose di pace, stanche di fare la fila davanti ai negozi e di farsi strozzare dal mercato nero. Resistevano negli atteggiamenti ortodossi soltanto le milionarie e le stipendiate. Dopo il 25 luglio, anche il fascio femminile si liquefece di colpo al sole di quell’estate fatale. Con l’8 settembre, poco alla volta, cominciando dal Veneto e dalla Lombardia, si formarono le sezioni femminili repubblichine. La maggior parte delle iscritte borghesi si tennero lontane dal movimento. A Milano qualche grossa borghese aderì, ma cercando di dare alla cosa un valore formale o mettendosi fin da principio sul terreno del doppio gioco. In sostanza, il fascio femminile di Salò fu la breve e forsennata rivincita di molte che venticinque anni prima avevano partecipato squadristicamente alla preparazione della marcia su Roma, e poi erano state escluse dal partito in omaggio ai pregiudizi borghesi. Benché invecchiate, queste superstiti tornarono in circolazione, spesso accompagnate dalle figlie, dalle nipoti e dalle sorelle più giovani. Si diedero a fare propaganda, a ingrossare le modeste folle delle manifestazioni, ad accompagnare le truppe avviate al Sud, a festeggiare, sotto lo sguardo freddo della gente, i camerati tedeschi, anch’essi annoiati e diffidenti, a maledire i partigiani. Alcune, non paghe di quella partecipazione laterale, indossarono l’uniforme delle ausiliarie e prestarono servizio in qualità di telefoniste, di cuciniere e, in qualche caso, di serventi ai pezzi di artiglieria che battevano la Linea Gotica davanti al Magra e nella valle del Reno. Si videro anche certe creature senza sesso, cariche di pugnali e di rivoltelle, sfumazzare e commettere tristi spavalderie insieme ai «maimorti» e alle brigate nere. In fondo, non erano più fasciste~ non erano più italiane e non erano neppure più donne. Erano la condizione più misera e confusa di un tragico equivoco.
Quando Mussolini, alle ultime ore della repubblica lacustre, salì sopra il famoso autocarro tedesco che avrebbe dovuto portarlo alla salvezza, in mezzo alla truppa repubblichina col basco che assisteva alla dipartita, c’era anche una «maimorta» di Milano, certa Cesira Fumagalli, figlia di un sensale di generi coloniali, la quale si fece avanti all’ultimo momento, sfoderando il pugnale e gridando: «Duce, vinceremo!». Mussolini, già piegato per salire sul camion, si voltò a mezzo e, con un lieve sorriso, rispose: «Bravo giovanotto. Hai del fegato».
L’aveva presa per un uomo.
 
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