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 2022  ottobre 18 Martedì calendario

Dall’introduzione dell’autore a "L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia" di Andrea Graziosi (Laterza)

L’aggressione all’Ucraina ha dietro di sé dispute e tensioni già esistenti al momento del crollo dell’Urss, incarnate in confini amministrativi trasformati di colpo nel 1991 in confini politici. Si lacerava così il tessuto certo malato, ma a suo modo integro, creato da decenni di grandi migrazioni interne, sollecitate da Mosca per motivi strategici, politici e economici (…).

Da questo punto di vista, il caso dello spazio ex-sovietico è simile a quello dello spazio ex-jugoslavo. Entrambi si trovarono tagliati da confini problematici, che richiedevano cura e attenzione anche perché attraversavano ciò che restava dei grandi territori plurilingui e plurireligiosi di quella Europa di mezzo che, all’inizio del Novecento, andava dalla Slesia al Caucaso, comprendeva i Balcani, si apriva all’impero ottomano e aveva importanti appendici nella parte occidentale del continente, in Irlanda, come in Alsazia o in Catalogna. (…). Ciò malgrado, i problemi sollevati dai nuovi confini non furono affrontati anche per i timori di un’Europa e di un Occidente che, a partire dagli accordi della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, firmati a Helsinki nel 1975, avevano fatto dei confini dei tabù, senza pensare che la possibile crisi delle etno-federazioni socialiste avrebbe richiesto una loro regolazione in mancanza della quale tensioni e conflitti sarebbero stati inevitabili.


Questi conflitti esplosero presto, e su larga scala, nei Balcani, ma non nello spazio ex-sovietico. (…) Certo, anche nella ex Unione sovietica non mancarono conflitti simili, anche se di scala minore, a quelli che dilaniavano la ex Jugoslavia, in Transnistria, come in Abcasia, Ossezia meridionale, Nagorno-Karabakh, Tagikistan o Cecenia. Come scrivevo nel 1993, nella Mosca del 1992 era già visibile la rinascita di “concezioni e sforzi imperiali cattivi, che nascono dall’incontro tra un centro nazionale aggressivo e minoranze disperse della stessa nazionalità…”. (…)


All’inizio degli anni Novanta, tuttavia, sia Mosca che Kyïv affrontavano il problema con prudenza e ragionevolezza. Contava l’esempio delle brutali guerre jugoslave degli anni Novanta (…). E contava la contrarietà all’uso della violenza condivisa dall’intero gruppo dirigente centrale ex-sovietico, inclusa la maggioranza dei golpisti dell’agosto 1991: non è un caso che prima della sua morte, Mikhail Gorbaciov sia fatto oggetto di scherno e disprezzo da parte di Putin, dei suoi seguaci e dei suoi ammiratori, che ne deridevano debolezza e ingenuità contrapponendovi il loro virile culto della forza, alla luce del cui sinistro e suicida “realismo” anche gli errori più gravi di Gorbaciov risplendono di saggezza e umanità, come ha dimostrato indirettamente anche l’imbarazzo ai suoi funerali (…).


Contava inoltre la presenza in entrambi i paesi di rilevanti arsenali atomici. L’Ucraina aveva ereditato dall’Urss più di 4000 testate nucleari (2700 tattiche e 1400 strategiche), che nel 1994 accettò di trasferire gradualmente alla Russia. (…) Contò infine la già ricordata, relativa debolezza nel contesto post-sovietico delle più immediate e primitive ideologie “esplosive”, quelle etno-nazionali, basate sulla affermazione semplicistica e cieca di “popoli”, e quindi stati-nazioni, identificati essenzialmente da lingue e, in sottordine, religioni in corrispondenza biunivoca con essi, che delle guerre jugoslave furono un motore importante.

Queste ideologie non erano infatti adatte né a un’Ucraina la cui sola speranza di costruirsi come stato era legata a una scelta pluralista, l’unica capace di tenere insieme lingue, religioni e tradizioni anche molto diverse se convintamente abbracciata come nucleo condiviso fondativo; né a una “Russia” per la quale — malgrado discorsi e speranze del primo Eltsin e del suo gruppo dirigente — era difficile concepirsi come semplice “nazione” tra le altre, soprattutto in assenza di una reale sconfitta che ne ridimensionasse le ambizioni di essere, più che il cuore di un impero, il centro di un “continente” (l’immagine è di Stalin) o di un “mondo” russi, come si cominciò presto a dire nella Mosca putiniana.


Nei primi anni Novanta cominciò così a cristallizzarsi a Mosca una nuova immagine del paese e della “Russia”, che si riteneva in grado di proiettare verso una nuova grandezza. Per quanto oppressiva e illiberale, essa non poteva però per sua intima natura essere etno-nazionale, visto che si ambiva a fare di nuovo di Mosca il centro di un suo universo. Kiev intanto si muoveva con apparente e contraddittoria lentezza e in modo diverso nelle diverse parti del paese, ma col senno di poi con veloce determinazione, verso una concezione di sé aperta e plurale. Una concezione, quindi, anche “europea”, almeno per quel che riguarda il discorso ufficiale di una Unione europea certo pervasa anche da pulsioni opposte in molti dei paesi che la compongono. (…)


Malgrado l’eredità sovietica, e i grandi e irrisolti problemi creati dal crollo dell’Urss, perché il conflitto scoppiasse è stato cioè necessario lo sviluppo di una nuova ideologia aggressiva in Russia. Essa si radicò nell’ambizione di ristabilire una rinnovata versione di un mondo russo-centrico capace di trattare alla pari con gli altri grandi del mondo, e fu nutrita da un desiderio di rivalsa a sua volta alimentato da umiliazioni più presunte che reali, ma non per questo meno “vere” per chi le viveva come tali. (…) È stata così lanciata l’“Operazione militare speciale”.


Malgrado un nome che sottolinea l’intensità del wishful thinking putiniano e le cattive informazioni di cui si è nutrito e la decisione di non riconoscere l’Ucraina come uno stato cui, appunto, si muove guerra, tale essa era in realtà. Come tutte le guerre, quindi, anche quella russa-ucraina si deciderà sul campo di battaglia, in base all’azione di fattori e di scelte imprevedibili. È perciò impossibile prevedere cosa succederà e come e quando essa finirà. Sappiamo tuttavia che Putin per sopravvivere politicamente ha bisogno, se non proprio di una vittoria, almeno di qualcosa che possa essere presentata come tale. (…) Ma sappiamo anche della determinazione ucraina a non farsi sopraffare. (…) La resistenza da essa opposta a Mosca non lascia dubbi in proposito, come smentisce a posteriori i dubbi tante volte ripetuti, anche su sollecitazione russa, sulla capacità dell’Ucraina e degli ucraini di volersi e farsi stato, persino contro forze avverse soverchianti.