La Stampa, 20 ottobre 2022
Putin scarica barile
Contrariamente al vecchio teorema che la vittoria ha sempre molti padri, Vladimir Putin normalmente non vuole condividere i suoi meriti con nessuno. Quando il padrone del Cremlino inizia a delegare e distribuire responsabilità è quasi sempre segno di una situazione che considera spiacevole, e dalla quale vorrebbe allontanarsi fino a rendersi quasi invisibile. Quando, qualche giorno fa, sui teleschermi russi è apparso il generale Sergey Surovikin, per spiegare le ragioni e le prospettive della «operazione militare speciale» russa in Ucraina, molti cremlinologi avevano sospettato di stare guardando il volto di pietra del prossimo Bonaparte russo, forse addirittura del vero «delfino» di Putin, destinato a venire premiato in caso di successo della guerra con il trono.
Ora, che il presidente russo ha annunciato una sorta di mobilitazione delle strutture statali russe, creando due superorganismi governativi che si occuperanno della guerra – il Comitato di coordinamento guidato dal premier Mikhail Mishustin e la commissione del Consiglio di Stato per coordinare i governatori delle regioni presieduta dal sindaco di Mosca Sergey Sobyanin – sembra farsi strada l’ipotesi opposta: sono in arrivo «decisioni difficili» annunciate da Surovikin, e Putin vorrebbe per quanto possibile condividerne il peso con i suoi sottoposti. La «verticale di potere», costruita con tanta tenacia per più di 23 anni di regno, si trasforma in una «orizzontale» che dovrebbe nelle intenzioni parare il colpo del doppio disastro, quello militare al fronte e quello politico per la chiamata alle armi dei russi, dissipando lo scontento dal centro del sistema.
Era già successo con la pandemia di Covid-19, quando il padrone del Cremlino – dopo aver cercato fino all’ultimo di ignorare la gravità dell’emergenza, che intralciava i suoi piani per il «referendum» sui suoi nuovi mandati presidenziali – aveva delegato le spiacevoli e dispendiose decisioni sui lockdown e sugli aiuti a famiglie e imprese alle regioni, dopo avere ridotto l’autonomia del federalismo per due decenni. L’«operazione militare speciale» è finita, Mosca ammette infine che si tratta di una guerra, che dopo la mobilitazione – con almeno 300 mila coscritti già in corso di arruolamento, e un milione di maschi russi cui è stato vietato l’espatrio in attesa di trasformarli in carne da cannone – non è più uno show televisivo, ma una realtà che riguarda tutti. Inclusa quella struttura dello Stato che finora aveva cercato di fare finta di continuare il proprio funzionamento come se nulla fosse, ignorando la guerra in una indifferenza che in tempi di nazionalismo militante diventava quasi una manifestazione di dissenso. Ora il premier e il sindaco – due pesi massimi della politica federale, per quanto non troppo popolari presso l’elettorato – non potranno più apparire come il «volto buono» del regime.
La Russia è in guerra, e anche le regioni dove la legge marziale o la «allerta media» non sono stati dichiarati rischiano ora misure emergenziali come limitazioni alla libertà di movimento, mentre l’economia viene «mobilitata» per i bisogni dell’esercito, come all’epoca dell’Unione Sovietica. L’agenda che il partito della guerra aveva iniziato a promuovere dopo il successo della controffensiva ucraina a Kharkiv continua a venire implementata da Putin punto dopo punto, ma paradossalmente proprio i falchi potrebbero essere scontenti del risultato: Mishustin e Sobyanin sono dei «tecnici» che piacciono ai moderati, e la loro entrata in campo potrebbe creare nuovi concorrenti in quella gara per la successione a Putin che ormai è chiaramente in corso. Un altro segnale delle faide interne al Cremlino è stata l’interruzione della trasmissione televisiva della seduta del Consiglio di sicurezza russo appena il presidente ha passato la parola a Dmitry Medvedev, l’ex premier relativamente moderato riemerso negli ultimi mesi come il portavoce dei falchi più aggressivi. Invece, una finestra mediatica è stata concessa a Nikolay Patrushev, l’ex capo dell’Fsb che oggi viene considerato da alcuni osservatori moscoviti come relativamente realista (o che almeno vuole apparire tale, che è comunque un segnale interessante), e che ha dedicato il suo intervento all’irrigidimento delle politiche migratorie, forse un’ulteriore regalo ai nazionalisti o forse una minaccia velata agli ucraini che abitano in Russia.
Anche la nuova autonomia dei governatori, che dovranno decidere quali misure emergenziali applicare nelle loro regioni, è un’arma a doppio taglio: da un lato, si tratta di un premio (le autorità locali nelle zone di legge marziale potranno sequestrare a loro discrezione beni e mezzi ai cittadini per i bisogni militari) che dovrebbe stimolarli a reprimere le proteste locali, dall’altro significa concedere più potere ai civili, violando gli equilibri di un sistema dominato da militari, polizia e servizi segreti.
La legge marziale fa a pezzi gli ultimi brandelli di democrazia in Russia, vietando manifestazioni, scioperi e proteste, e legalizzando censure, arresti, deportazioni e sequestri, ma si tratta semmai di un riconoscimento sulla carta di quella che era già una dittatura militare di fatto. Ora però, per sopravvivere e tentare di rilanciare, Putin ha bisogno di offrire anche degli incentivi – se non ai cittadini inviati in trincea, almeno alla sua nomenclatura, che non gradirà la trasformazione in capro espiatorio di una guerra fallimentare.