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 2022  ottobre 20 Giovedì calendario

Riva si racconta

Gigi Riva parla con Gigi Garanzini in Mi chiamavano Rombo di Tuono. Con tre estratti
Ma la mia grande passione è stato De André. Adoravo la sua musica, i suoi testi che erano poesia pura, e una volta guadagnato il diritto a sedermi davanti sul pullman della squadra, vicino all’autista ma soprattutto al mangianastri, la colonna sonora era scritta. Così come le lamentele dei compagni, che avevano altri gusti musicali, e peggio per loro. Provavano a protestare, facevano anche partire il coro dal fondo del pullman – «Basta, basta!» –, ma io alzavo l’audio e avanti con le canzoni di Fabrizio. L’anno prima dello scudetto arrivò a Cagliari un buon centrocampista, Ferrero, che giocò qualche partita con noi. Ma soprattutto amava quanto me le canzoni di De André e l’anno successivo, quando già era passato alla Sampdoria, trovò il modo di farmi un regalo che non ho mai dimenticato. Non mi disse nulla prima. Aspettò che la partita fosse finita e poi, abbracciandomi, buttò lì che, se mi fidavo di lui, aveva organizzato una sorpresa per la serata. Morale, mi ritrovai all’ingresso di una villa, era buio, e mi parve di riconoscere la persona che mi veniva incontro. Fu un’emozione molto forte. Era davvero lui, Fabrizio De André, che, seppi poi, alla proposta di Ferrero di un incontro tra noi due aveva detto subito di sì. Passammo non so quanto tempo a guardarci, ad annusarci, praticamente in silenzio. Che io non sia mai stato un chiacchierone non è più una novità. Ma anche lui non scherzava. Ci volle del bello e del buono per rompere il ghiaccio di una doppia timidezza. Anzi servirono gli additivi, e anche lì le sigarette innanzitutto, poi un po’ di whisky, sino a che poco alla volta riuscimmo a sgelarci. Lui era un appassionato di pallone e tifoso del Genoa, e di calcio e di gol era curioso. Io cercavo di farlo parlare delle sue canzoni, di come nascevano e si sviluppavano, di come le interpretava. Gli dissi quali erano le mie preferite, cioè tutte, ma in particolare Preghiera in gennaio. Qualcuno ha scritto che a quel punto imbracciò la chitarra e me la cantò. Purtroppo non è vero, perché un fatto così indimenticabile, Preghiera in gennaio di notte cantata a tu per tu, sarebbe stato uno dei momenti più belli della mia vita. Ma fu ugualmente un incontro magico. Mi regalò una delle sue chitarre, ricambiai con una maglia del Cagliari, con la reciproca promessa di rivederci presto.

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Non so se nella storia del calcio, perlomeno italiano, c’è mai stato un secondo tempo come quello di Juventus- Cagliari il 15 marzo 1970. Così assurdo che a raccontarlo tanto tempo dopo mi dà quasi la sensazione di averlo sognato, o letto da qualche parte. Invece no, è esattamente quello che accadde, parola per parola, rigore per rigore, insulto per insulto all’allora principe dei fischietti, Concetto Lo Bello da Siracusa. Il primo tempo era filato via liscio. Oddio, liscio, il primo gol lo aveva segnato il nostro stopper nella nostra porta, ma diciamo – sorridendo – che con Niccolai poteva anche succedere. Pareggiai io poco prima dell’intervallo ed è ovvio che con due punti di vantaggio in classifica il risultato ci stava bene. Non avevamo fatto i conti con Lo Bello: in compenso li aveva fatti lui, sapendo oltretutto che per uno sciopero improvviso della sede Rai le telecamere erano spente e il secondo tempo della partita in registrata, come usava allora, non sarebbe andato in onda. Cominciò con un rigore per la Juventus, del tutto inesistente. Protestammo a lungo, lui fu irremovibile, andò sul dischetto Haller e Albertosi parò. Mentre correvamo ad abbracciarlo, l’arbitro tornò a indicare il dischetto: il rigore era da ripetere. E lì perdemmo tutti quanti la testa, a cominciare da me. Mentre Albertosi piangeva di rabbia aggrappato al palo, io andai da Lo Bello e incominciai a riempirlo di parole, parolacce, insulti. Gli urlai che noi avevamo fatto sacrifici per un anno intero, e non era giusto che un coglione come lui li buttasse all’aria. Gli dissi anche di peggio, lui fingeva di non sentire e continuava a dirmi di pensare a giocare. Anastasi segnò il secondo rigore Rientrando a metà campo tornammo a dirgliene di tutti i colori Pensa a giocare, mi disse ancora un istante prima di far riprendere la partita. E a Cera, che era il nostro capitano, con quell’aria furba che sapeva fare: e voi pensate a buttar la palla in area su Riva. Il rigore per noi arrivò a qualche minuto dalla fine, per un contatto in area non meno discutibile di quello precedente. Stavolta furono loro a protestare a non finire, io ero così stravolto che non calciai benissimo e Anzolin in tuffo riuscì a toccare la palla, per fortuna senza prenderla. Tornando a metà campo dopo abbracci interminabili perché quel gol valeva praticamente il titolo, Lo Bello mi fissò a lungo e la sua espressione diceva: «Allora, hai visto?». Gli risposi ancora un po’ secco: «E se lo sbagliavo?». La parola fine la pretese lui: «Te lo facevo ripetere».
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Non sono mai stato un chiacchierone. Mi piacciono i silenzi, mi piace semmai parlare con me stesso. Il silenzio è stata una parte importante della mia vita, che quand’ero troppo giovane mi ha detto: «Arrangiati». E io mi son dovuto arrangiare. Mi sono chiuso, questo sì. Ma non è vero che sono diventato triste o malinconico: ho dovuto semplicemente fare i conti con l’infanzia che ho avuto, con i lutti, con le nottate a occhi spalancati aspettando il sonno che non arrivava. Il calcio mi ha aiutato, mi ha dato tanto per non dire tutto. Ma quando sono uscito per sempre dal campo, dal sogno che si era avverato e aveva tenuto lontani, entro certi limiti, i fantasmi notturni, ho dovuto cominciare a fare i conti, fino a lì sempre rimandati, con quella parola. Depressione. Che fatico persino a pronunciare, perché significa farmi del male. Il calcio, la carriera, i gol erano stati la reazione che mi serviva: prima una spinta, poi un propellente vero e proprio a mano a mano che arrivavano i successi. Venendomi a mancare tutto questo di colpo, non con un declino progressivo come avevo sempre pensato sarebbe successo, mi sono sentito perso. Per fortuna, nel momento peggiore, mi hanno salvato i figli. Prima è nato Nicola, poi Mauro, e la vita è tornata ad avere un senso. Grazie a loro quella brutta parola che ho scritto una volta sola, e non voglio ripetere, è stata superata. Comunque è regredita, tornando a manifestarsi ogni tanto ma non in quella misura.
Un problema di testa con cui ho imparato a convivere. Mai del tutto, perché quando si rifà vivo rimane un brutto avversario da affrontare. Mi vien da dire che invecchiare non aiuta, per tante ragioni, ma è vero fino a un certo punto: avevo poco più di trent’anni quando l’ho conosciuta nella sua forma peggiore. Un altro periodo brutto, poco meno di dieci anni fa, ricordo di averlo raccontato al «Corriere della Sera».
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