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 2022  ottobre 20 Giovedì calendario

Intervista a Irina Scherbakowa

Il telefono squilla in continuazione, Irina Scherbakowa deve interrompere l’intervista più volte. «Da quando abbiamo vinto il Nobel per la pace è ogni giorno così». Camminiamo tra gli stand dell’affollato padiglione tedesco prima di trovare un piccolo bar dove sederci.
Scherbakowa, classe 1949, è una storica specializzata nello studio dello stalinismo e delle dittature e un’attivista politica. Parla con un piglio spiccio ma sorridente. Racconta di essere un’assidua frequentatrice della Fiera dell’editoria francofortese: «Fino a tre anni fa la nostra organizzazione non governativa, la Memorial Society, aveva uno stand alla Buchmesse, poi è diventato difficile per i costi troppo alti». A questo punto meglio affrontare subito il fatto che quest’anno non è statoammesso alla fiera il padiglione nazionalerusso.
Che cosa ne pensa dell’esclusione della Russia?
«Il fatto che non ci sia uno stand ufficiale è un segnale giusto. La Russia è responsabile di una guerra di invasione, è uno Stato aggressore. D’altra parte anche alla Biennale di Venezia il padiglione russo è stato chiuso».
Quando ha deciso di abbandonare il suo Paese?
«Poco dopo lo scoppio della guerra, a primavera. Ora vivo e lavoro a Weimar dove seguo il Memoriale di Buchenwald che conserva la memoria delle vittime del nazismo.
Vorrei sottolineare però che l’esclusione francofortese non è una forma di censura dell’intera cultura russa».
Il dibattito sulla cancel culture non la coinvolge?
«Mi dispiaccio quando si estende la censura alla letteratura. Le pare possibile eleggere Puškin o Bulgakov a rappresentanti dell’imperialismo russo? Cechov o Tolstoj sono portatori sani di valori umanisti, non vedo come possano essere considerati responsabili di quanto sta accadendo. Onestamente però non mi pare questo al momento il problema principale. Ora bisogna solo supportare l’Ucraina».
Lei è una storica. Che valore hanno quelle testimonianze del male nella costruzione della democrazia?
«Ero una studentessa universitaria quando ho iniziato a raccogliere interviste e materiali sulla violenza dello stalinismo. Nel database del Memorial c’è una lista di almeno quattro milioni di persone uccise, molte nei gulag. E sono solo una parte. I nostri archivi, sparsi in tanti paesi, sono fatti di oggetti, documenti, interviste, lettere dei prigionieri».
Per questo Memorial è stato bandito da Putin?
«È accaduto lo scorso anno, alla fine di dicembre. Naturalmente ci vogliono distruggere per evitare che la verità sul passato si conosca. Noi lavoriamo sul valore della testimonianza, anche con le scuole.
Le intimidazioni sono però iniziate prima, quando il ministero della Giustizia russo ci ha dichiarati “agenti stranieri”, accusati di ricevere sostegno dall’estero (cosa considerata da una nuova legge voluta da Putin nel 2012, ndr ). Non riusciranno comunque a farci fuori perché al di là della sede fisica siamo ormai un network distribuito in ottanta paesi, non solo russi.
Abbiamo collaboratori anche in Italia e in Germania».
Il passato può essere riscritto?
«Putin prova a fare questo, mitologizzando l’impero e l’Unione Sovietica. L’Ucraina fa parte della sua ricostruzione propagandistica e nella sua narrazione non è un paese indipendente ma fa parte della grande storia russa. In quest’ottica rientra anche la costruzione di un mito nazionalista che riabilita Stalin come liberatore dai nazisti».
Ha respirato nella sua famiglia d’origine questa voglia di libertà che l’ha trasformata in una studiosa attivista?
«Vengo da una famiglia ebrea di origini ucraine. I miei nonni materni erano di Kiev, si trasferirono a Mosca dopo la Rivoluzione. Erano comunisti, mio nonno era nel Comintern. Mio padre prese parte alla seconda guerra mondiale e rimase ferito a Stalingrado. Era un giornalista, mia madre invece un’insegnante di letteratura russa.
Sono stata educata allo spirito critico anche se non posso dire che i miei fossero dei veri dissidenti».
Una storia delle tante raccolte che porta nel cuore.
«Quella di Paulina Samoilova, una giovane donna che ha trascorso trent’anni in un gulag. Un tempo infinito. Arrestata quando aveva 17 anni con l’accusa di aver aiutato il fratello trotskista. La storia di Paulina mi piace perché è una rivincita su tanto dolore. Lei è riuscita a cambiare vita, una volta libera ha iniziato a lavorare con una compagnia teatrale ed è diventata un’attrice anche piuttosto nota».
Al di là del Nobel, quando ha capito che Memorial poteva diventare la spina nel fianco di Putin?
«L’impatto è stato chiaro immediatamente. Già alla prima conferenza a Mosca erano arrivate centinaia di persone da tutta la Russia per partecipare. Un salto reso possibile dall’appoggio di Sacharov».
Qual è il suo sogno ora?
«Che l’Ucraina vinca la guerra, Putin cada e la Russia cambi la sua storia».