ItaliaOggi, 19 ottobre 2022
Il Goethe è tenuto a stecchetto
Il governo tedesco ha stanziato 200 miliardi per affrontare la crisi energetica, una cifra enorme eppure insufficiente. E si assicura che non si andrà in rosso, il ministro alle finanze, Christian Lindner, difende strenuamente il pareggio in bilancio. Ma si fa conto su tasse per i guadagni extra delle società di distribuzione di gas ed energia elettrica. E molti dubitano sulle entrate. Nei mesi scorsi la stangata sui superintroiti avrebbe dovuto portare 7 miliardi nelle casse statali, ne è arrivato appena uno.
Quindi si comincia a tagliare le spese. Come in Italia, purtroppo, la prima vittima è la cultura, considerata sempre, a torto, un lusso di cui si può fare a meno, quando è necessario. I tagli colpiranno anche il Goethe Institut, che si vedrà costretto a ridurre drasticamente le attività. Già per il 2022, ha ottenuto 233 milioni, contro i 250 dell’anno precedente, e gli 11,7 mln per le attività in Ucraina sono concessi una tantum. Una riduzione che potrebbe sembrare sopportabile, ma l’istituto da anni lavora al limite delle sue possibilità.
Italia e Germania sono quasi alla pari, cinque nostri istituti di cultura in Germania (Berlino, Amburgo, Colonia, Monaco e Stoccarda), e sette Goethe in Italia (Trieste, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Milano e Genova). Anni fa eravamo sette a sette. L’istituto di Wolfsburg è diventato di fatto una succursale gestita da Berlino, quello di Francoforte è stato chiuso nel 2014, benché la città ospiti la Buchmesse, la più grande fiera del libro al mondo, e sia la capitale finanziaria del continente.
I nostri mezzi sono storicamente insufficienti, e gli istituti italiani vengono direttamente controllati dal ministero degli esteri, quindi costretti a seguire le direttive politiche. Il Goethe è una fondazione indipendente ma, come è inevitabile, segue entro certi limiti la linea scelta dal governo.
Dopo la riunificazione, per esempio, si volle potenziare la presenza del Goethe all’Est. Si aprì una sede nel Kazakistan, e si decise di chiudere le sedi di Trieste e di Napoli. La cultura tedesca è già amata in queste due città, fu la giustificazione. Si rinunciò alla chiusura grazie alle proteste di triestini e napoletani, ma le strutture degli istituti furono ridotte. A Roma si decise di chiudere la biblioteca del Goethe, che era un punto di incontro per gli intellettuali, non solo per chi conosceva il tedesco.
Che la cultura non dia da mangiare è un vecchio pregiudizio, ovviamente falso. La cultura è l’investimento che costa meno, e quanto rende è difficile da valutare. Il Kazakistan è ricco di materie prime, e un domani un ingegnere kazako, che abbia imparato il tedesco al Goethe, magari comprerà macchine utensili made in Germany.
Per il Goethe Institut andrà peggio il prossimo anno: si scenderà a 224 milioni, un taglio di quasi il 12% in due anni. «Una riduzione che ci colpisce pesantemente», denuncia il segretario generale, Johannes Ebert, «sarà inevitabile ridurre le nostre attività nell’Europa meridionale, in Nord e Sud America, e in diversi altri paesi». Si cancelleranno novemila eventi culturali, e si ridurranno drasticamente i programmi per la formazione di 4.500 insegnanti di tedesco. E, ancora più grave, si dovranno chiudere alcuni istituti. Si spera non in Italia. «Si colpisce la fiducia internazionale nella collaborazione con la Germania», si rammarica Ebert.
Frau Carola Lenz, presidente del Goethe, dichiara: «Il nostro istituto per la repubblica federale è uno strumento importante per la comprensione internazionale. Ci troviamo in Europa in una situazione unica dalla fine della guerra». La cultura rimane vitale per l’intesa e la coesistenza pacifica.
Il Goethe, fondato nel 1951, con 158 sedi in 98 paesi, favorisce la diffusione della lingua e della cultura tedesca (gli studenti stranieri sono stati 223 mila nel 2020), insieme con la Ebert Stiftung, la fondazione del partito socialdemocratico, e la Adenauer Stiftung, la fondazione del partito cristianodemocratico. Suona retorico, e fin troppo scontato, ricordare che si taglia la spesa culturale mentre si aumenta il bilancio per le forze armate.