la Repubblica, 19 ottobre 2022
Amato tra i detenuti di San Vittore
Qualcuno si domanda: ma la mia voce chi la sente? Elena chiede gli abbracci del marito e dei figli, «sfiorarsi la punta delle dita non basta a tenere unita una famiglia». Tutti citano la Costituzione, o forse sarebbe meglio dire s’aggrappano agli articoli della Carta, perché nel naufragio d’una vita è il solo bene sopravvissuto, lo scudo protettivo che garantisce l’ultimo residuo di libertà. «La Costituzione è stata scritta per i più deboli, non per chi ha già potere»: il monito dei padri costituenti sembra incarnarsi nelle facce di Alessandro, Munir, Adele e di molti altri detenuti a San Vittore, mentre fuori avanza un’Italia vincente pronta a liquidarla come un libro invecchiato.
Per sentire la Carta viva, farsi corpo e anima d’una comunità, bisogna venire nel penitenziario ottocentesco nel cuore di Milano. L’idea è nata quattro anni fa dalla Corte Costituzionale, un viaggio dentro le carceri per dare speranza a chi non ce l’ha più. Oggi tocca al presidente emerito Giuliano Amato rinnovare una consuetudine interrotta dalla pandemia. E se è vero che il carcere trasforma chiunque vi si affacci, questo vale anche per i giudici della Consulta. Solitamente controllato, lo statista avvezzo ai mille agguati della politica sembra cedere all’affettività, chiama ciascun detenuto per nome, ascolta le domande, non sempre asseconda. «La prima cosa che dovete difendere è la vostra dignità», dice nella rotonda dove confluiscono i sei bracci del carcere. «Non dovete arrendervi nel reclamare i diritti».
Il suo ragionamento arriva al cuore dei detenuti. «Esiste un meraviglioso sistema di norme e provvedimenti che è in technicolor, ma la quotidianità del carcere è rimasta in bianco e nero. Bisogna spingere perché sia ridotta al minimo la distanza tra regola e realtà». Nessuno ce l’ha con voi, aggiunge. Non c’è una intenzione punitiva. Ma mancano le risorse e gli uomini perché lo Stato faccia il suo dovere. È già stato a Nisida, nel carcere minorile. E là ha raccontato che suo padre lo sognava giudice ma lui scelse un’altra strada «perché io il potere di togliere la libertà non lo volevo».
I detenuti presenti all’incontro sono una cinquantina, la maggior parte in attesa di giudizio, con un’ampia rappresentanza di donne, che San Vittore sono solo 71 su 940, e molti immigrati. Sono dentro generalmente per reati legati alla droga, tra piccolo spaccio e criminalità organizzata, ma delle loro colpe ora non si parla, perché il carcerato non è il suo reato, come ricorda Antonio Casella, un vecchio professore di filosofia che da venticinque anni fa il volontario a San Vittore. È stato lui a prepararli a questi incontro insieme a Michele Massa, professore di Diritto pubblico alla Cattolica. «Ma scriva dei detenuti, non di noi», si raccomandano entrambi minimizzando il loro contributo. «Sono un pezzo importante di società civile, non la discarica. Gli abbiamo detto di non leggere, ma di trovare le parole per raccontarsi».
Non ha difficoltà a trovare le parole Amedeo, il giovane che indossa la felpa con il simbolo della Nave, il reparto all’avanguardia nelle cure riabilitative. Va alla radice di tutti i problemi, quello del sovraffollamento che toglie ai carcerati sonno, respiro, spazio vitale. «La legge presentata da Manconi e Tronti proponeva il numero chiuso. Non sarebbe una misura coerente con la Costituzione?». Amato gli dà ragione, ma non incoraggia facili illusioni. «Quella proposta legislativa fu accolta da alcune forze politiche come una follia». Il presidente emerito non lo dice, vuol tenere l’attualità politica distante, ma quel partito era Fratelli d’Italia. «Però di recente il comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha proposto il numero chiuso nelle carceri. L’Italia da sola non può farcela, ora meno che mai. Ma se si crea una spinta europea c’è qualche possibilità».
Man mano che si va avanti, i busti dei detenuti inclinano in avanti, come succede a teatro quanto lo spettacolo ti cattura. Questa va volta va in scena un uomo delle istituzioni che riconosce l’ingiustizia di certa giustizia, e che quindi sta dalla loro parte, facendosi carico di disagio e sofferenza. «Le carceri bisogna conoscerle», disse Calamandrei in unodei suoi primi discorsi in Parlamento nel 1948. Bisogna conoscere «questo mistero inesplicabile della vita umana che è il dolore». C’è il dolore di chi non si sente ascoltato fino in fondo. «I giudici sono troppo pochi e hanno troppe cause», argomenta Luca. «Il giudizio cartaceo è terrificante», lo asseconda Amato. «La giustizia fondata sulle carte e non sulle persone mi ricorda il meccanismo assurdo degli algoritmi quando si sostituiscono alla decisione degli esseri umani». Evoca la schedatura fatta al confine sulle facce degli immigrati che chiedono asilo politico: se ne è ricavata un’immagine standard di chi mente. E chi fa la faccia da mentitore viene fermato. «Un criterio dissennato e disumano», dice Amato mentre la rotonda esplode in un applauso.
Silvano ha l’aria di un professore di liceo, mentre pone la questione della pandemia. «Ha avuto un costo pesantissimo per i detenuti: celle chiuse, attività interrotte, esposizione al rischio di contagio. Ansia, paura, incertezza. A tutti gli italiani è stato dato un riconoscimento. Perché non definire un rimedio anche per noi, concedendo una liberazione anticipata speciale?». Amato lo segue nel ragionamento: «Se altrove è stato concesso un risarcimento economico, a voi dovrebbe essere riconosciuto quello che avete perso in questi due anni nella possibilità di esercitare libertà e diritti. Occorre che il nuovo ministro della Giustizia ascolti la vostra richiesta». Nel corso dell’incontro, cresce l’agenda per il nuovo ministro: l’assistenza per chi entra in carcere – «si rischia di impazzire», dice Antonietta emozionandosi – i reparti per le donne in maternità, i troppi vecchi che affollano le carceri, il permesso di soggiorno che scade, l’aiuto sociale per chi ritrova la libertà. Il professor Amato non può dirlo, la cronaca politica deve restare fuori: ma questa destra va in direzione contraria, invocando una concezione autoritaria della pena.
Il disagio mentale è la piaga che più fa male. Stanno chiusi in sei dentro una cella, basta poco per alterare equilibri precari. Se uno urla di notte, nessuno dorme. E l’indomani a gridare saranno in due o tre, perché se i matti sono un problema fuori dalle sbarre, dentro la sofferenza psichica esplode contagiosa, dolore irreparabile. Quest’anno sono stati quattro i suicidi dentro San Vittore – due nello stesso braccio – con esiti squassanti per tutta la comunità. Vengono in mente le parole consegnate dall’ergastolano Salvatore al giudice Elvio Fassone, lo stesso che l’aveva condannato. «L’altra settimana ne ho combinato una delle mie, mi sono impiccato», gli scrive Salvatore, come se anche togliersi la vita fosse un crimine di cui giustificarsi. Amato spiega ai detenuti che nelle Rems (strutture per chi ha disturbi psichiatrici), in tutta Italia, ci sono solo seicento posti, mentre chi ne ha bisogno supera il migliaio. «Mancano le risorse, ma non bisogna arrendersi. Esiste un giudice: non è a Berlino, neppure a Milano, ma lo trovate a Strasburgo, dove ci si può appellare al tribunale dei Diritti dell’uomo».
Al momento dei saluti, nessuno se ne vorrebbe andare. Il presidente emerito s’accomiata col ricordo degli ebrei a San Vittore nel 1944, quando lasciarono il carcere nazifascista per essere spediti nei lager. «Gli altri prigionieri li scortarono con la loro razione di carne tenuta da parte: sapevano che gli sarebbe servita per sopravvivere». Una volontaria commenta a bassa voce: «Anche oggi i detenuti fanno la colletta alimentare per i poveri, lo scriva mi raccomando». Solidarietà e dignità a San Vittore, oggi come allora.