La Stampa, 19 ottobre 2022
I nemici di Xi che però non contano un granché
Potenti, ma disuniti e sempre più vecchi e ai margini del Partito. È questo l’identikit di chi si oppone al terzo mandato di Xi Jinping. Nei dieci anni in cui è stato al potere, il presidente cinese ha frantumato il cosiddetto «triangolo di ferro» (burocrazia, industria e accademia) che ha costituito la base del consenso della classe politica che lo ha preceduto. Ora non gli resta che sostituirlo, completamente. «Quando un uomo conquista il potere, i suoi polli e suoi cani arrivano in paradiso», recita un proverbio cinese. E questo è tanto più vero nella Repubblica popolare, dove le più alte gerarchie del partito coincidono con le più alte cariche dello Stato che a loro volta decidono gli organigrammi delle imprese pubbliche e gli appalti.
Distinguere gli amici dai nemici è la prima regola di ogni rivoluzione. E Xi Jinping non è certo uno sprovveduto. Figlio di Xi Zhongxun, dirigente comunista dei tempi della Lunga marcia poi epurato da Mao Zedong e riabilitato da Deng Xiaoping, Xi conosce bene le feroci dinamiche di potere interne al Partito. Con i suoi natali, l’ascesa politica è stata facile e tranquilla. È passato da un incarico all’altro tenendo un profilo basso ed evitando gli scandali. Ma a ridosso del Congresso che nel 2012 lo avrebbe incoronato Segretario generale, ha mostrato il suo vero carattere. Improvvisamente scomparve dalla scena pubblica mancando diversi importanti appuntamenti e ricomparve solo quando, una settimana più tardi, ebbe la certezza che il suo più acerrimo rivale fosse stato messo fuori gioco.
Da allora Xi Jinping ha infranto ogni regola che ha sotteso l’avvicendarsi dei leader dalla morte di Mao per garantire una tranquilla transizione di potere. Dopo il personalismo del Timoniere e le purghe feroci che avevano caratterizzato il suo governo, infatti, la classe dirigente cinese aveva convenuto di affidarsi a un primus inter pares e di non indagare più nessuno al suo interno. Aveva anche deciso che chi aveva più di 68 anni doveva ritirarsi dall’organigramma. Questo fino all’arrivo di Xi, 69 anni compiuti, che da subito ha cominciato ad accentrare su di sé cariche e potere e ha fatto guerra alla corruzione senza risparmiare nessuno. Soprattutto non ha risparmiato chi poteva limitare la sua autorità.
«Lasciate che alcuni si arricchiscano prima», era la formula con cui Deng Xiaoping negli anni Ottanta aveva inaugurato il periodo di Riforme e aperture che ha portato la Cina ad assurgere a seconda economia mondiale. E la corruzione, non è un segreto, ha oliato la strabiliante crescita cinese per oltre trent’anni. Nell’ultimo decennio, quello in cui Xi Jinping è stato al vertice, l’economia ha rallentato e sono stati indagati 4,65 milioni di funzionari. I suoi nemici, va da sé, sono proprio nelle élite intellettuali, finanziarie e politiche che si sono formate negli anni d’oro, a partire dai presidenti che lo hanno preceduto.
Jiang Zemin (96 anni, presidente dal 1993 al 2003) e Hu Jintao (79 anni, presidente dal 2003 al 2013) sono per antonomasia i grandi vecchi a cui fanno capo le due macro fazioni del Pcc. Ma è soprattutto Jiang Zemin, colui che ha aperto il partito agli imprenditori e ha traghettato la Cina nel Wto, ad aver continuato ad avere un’immensa influenza nella scelta delle classi dirigenti dopo di lui. Si dice che sia stato lui a scegliere Xi Jinping nella convinzione di aver di fronte un uomo posato e facilmente controllabile. Se così fosse, mai fu fatto un errore di valutazione più grande. Seppure ancora in vita, era assente alla cerimonia che domenica scorsa ha aperto questo Congresso.
Ai tempi di Deng Xiaoping, un segretario generale non allineato con le politiche e gli obiettivi dei leader anziani veniva sostituito, ma nell’era di Xi Jinping è vero il contrario. Inoltre, poiché la lotta alla corruzione è arrivata a colpire Zhou Yongkang, uno dei nove uomini più potenti della legislatura di Hu Jintao, nessuno può sentirsi al sicuro. I vertici dell’Esercito di liberazione, nonché quelli dei servizi di pubblica sicurezza sono caduti in processi a porte chiuse mentre chi era a capo di importanti aziende pubbliche o i tycoon di quelle private sono rimasti intrappolati nella stessa rete dei politici che gli consentivano di fare affari. Fuori dai palazzi, gli intellettuali e gli attivisti per i diritti umani che nel decennio di Hu Jintao si erano conquistati un largo consenso popolare sono stati silenziati con gli strumenti tipici delle dittature o sono fuggiti all’estero. Stesso destino di chiunque faceva gruppo sotto un ombrello diverso da quello del presidente, dai vetero maoisti a cui sono state chiuse le librerie ai cristiani a cui sono state distrutte le chiese. Dopo dieci anni di Xi Jinping, non c’è nessuno che abbia la forza di sfidare apertamente il presidente o di proporre un’alternativa. Anzi. Con ogni probabilità la nomenclatura che sarà svelata alla fine di questo Congresso dimostrerà che per far carriera bisogna piacere al presidente. Ai comunisti cinesi non resta che dire Xi. —