La Stampa, 19 ottobre 2022
Perché l’LOpzione Uomo per le pensioni non funziona
Da circa un ventennio, in Italia il rapporto tra il numero degli occupati e la popolazione in età di lavoro (ossia tra i 15/16 e i 65 anni) è inferiore di quasi dieci punti percentuali rispetto alla media europea. La differenza sale a circa 15 punti con la Germania, e negli ultimi 10 anni soltanto la Grecia ha fatto peggio di noi. Se il dato italiano fosse pari a quello medio dell’Unione Europea, avremmo un Pil nettamente più elevato, meno povertà, minor disagio sociale e maggiore benessere. Pur con una bassa percentuale di lavoratori, se almeno il loro lavoro fosse più produttivo e anche meglio retribuito le cose andrebbero nettamente meglio. E invece no: la produttività ristagna in Italia da decenni -mentre è cresciuta, con poche altre eccezioni, nel resto d’Europa – e le retribuzioni sono anch’esse, in media, ferme o quasi da decenni. Bassa occupazione, quindi, e scarsamente retribuita. Come se non bastasse, le proiezioni demografiche ci dicono che avremo una diminuzione generale della popolazione di 5-7 milioni entro il 2050, tutta concentrata tra i giovani e le persone in età di lavoro (circa un quarto in meno!), mentre aumenterà in misura significativa la popolazione dai 65 anni in su. È l’effetto invecchiamento legato anche al saldo negativo, da diversi anni, tra il numero dei nati e quello dei morti: oggi ci sono 35 persone di 65 anni e più per ogni 100 in età di lavoro, nel 2050 saranno quasi raddoppiate. Per di più, chi è in età di lavoro non sarà necessariamente occupato: disoccupazione e non partecipazione, infatti, mostrano anch’esse valori percentuali più elevati della media europea, soprattutto nel Mezzogiorno, tra le donne e i giovani. Di fronte a questa situazione, dovrebbe essere chiaro a tutti che obiettivo primario della politica dev’essere l’aumento dell’occupazione e della sua produttività, con programmi che vanno dal miglioramento dell’istruzione e della formazione, agli investimenti pubblici, agli incentivi alle imprese per assunzioni nette (ovviamente dando per scontato che le misure contro l’emergenza energetica ne determinino una solida sopravvivenza). Al tempo stesso, occorrerà introdurre un salario minimo per evitare che si allarghi l’area del lavoro povero, che spinge molte famiglie a non superare la soglia di povertà.Non si comprende quindi come si possa pensare ancora a misure generalizzate di pensionamento anticipato, come “l’opzione uomo” ventilata in questi giorni, una copia della già sperimentata “opzione donna” che consente alle lavoratrici di ritirarsi con 35 anni di contributi e 58/59 anni di età ma con una pensione interamente calcolata sulla base dei contributi versati e dell’età al pensionamento, e perciò sensibilmente inferiore a quella riconosciuta in corrispondenza con i requisiti più stringenti della riforma del 2011. Quest’eventuale misura va valutata negativamente – insieme a “quota 41” (anni di contributi, senza vincolo di età) a cui fa spesso riferimento la Lega – perché l’esperienza dimostra che le uscite anticipate dal lavoro non portano affatto all’assunzione di un numero uguale o maggiore di giovani. Con minore occupazione, il paese continuerà a impoverirsi, costringendo il bilancio pubblico a destinare più risorse all’assistenza e, dato il debito, a sottrarle ad altre spese pubbliche, ben più efficaci nel promuovere il lavoro. Con scarse prospettive occupazionali in patria, continuerebbe l’emorragia di giovani verso altri paesi, il che peggiorerebbe le nostre chances di crescita.La seconda ragione riguarda gli effetti negativi sul bilancio dell’Inps, e quindi su disavanzo e debito pubblico, posto che non si voglia aumentare stabilmente la tassazione per ridurre l’età pensionabile. Con un minor numero di occupati e un maggior numero di pensioni in pagamento diminuiscono le entrate contributive e cresce la spesa, e proprio nel periodo in cui la demografia, da un lato, e l’inflazione, dall’altro, già ne determinano una cospicua crescita. Chi non ricorda la famosa gobba della spesa pensionistica in rapporto al Pil, guardata con forte preoccupazione dalle istituzioni internazionali e contro la quale si scagliavano generalmente i media prima della riforma del 2011? La gobba non è stata eliminata ma certo fortemente attenuata dalla riforma. Quota 100 l’ha rigenerata e misure che consentano ampia flessibilità nell’accesso al pensionamento non farebbero che aggravare il problema. È in ballo la sostenibilità a lungo termine del sistema, un rischio che ricade anzitutto sui giovani. La terza ragione è che si innescherebbe un circolo vizioso per cui non soltanto aumenterebbe la povertà di oggi ma si metterebbero le basi per aumentare anche quella futura: il pensionamento anticipato con calcolo contributivo della pensione comporta una pensione più bassa (diciamo del 3-3,5 per cento per anno di anticipo) che può magari bastare all’inizio del pensionamento ma rischia di divenire inadeguata con l’avanzare dell’età, allorché – tra l’altro – crescono i bisogni sanitari e di cura. Non dimentichiamo che le basse pensioni del nostro Paese, oggi, sono in larga misura il risultato dei pensionamenti a età ancor relativamente giovane del passato (anche dimenticando le baby pensioni). La politica, in definitiva, non può trascurare che le migliori garanzie di buone pensioni in futuro sono una vita lavorativa adeguata, un reddito da lavoro dignitoso e un’età di pensionamento più alta che tenga conto dell’aumento dell’aspettativa di vita. Forzature in nome dei diritti acquisiti sono miopi e rischiose. Tutto ciò non significa che non si debba fare nulla. Anzitutto, è giusto mantenere, e magari aumentare, gli interventi più solidaristici, come l’anticipo della pensione per i lavori usuranti e gravosi e come l’Ape sociale, e metterli a carico della tassazione generale e non dei contributi, che aumentano il costo del lavoro. In secondo luogo, si deve allargare l’area di copertura contributiva dei periodi di inattività forzata, per disoccupazione, cura di famigliari o anche riqualificazione professionale, in modo da far sì che i lavoratori – e, più ancora, le lavoratrici – riescano ad accumulare una ricchezza pensionistica sufficiente a finanziare una pensione che permetta loro di affrontare la vecchiaia con un po’ di serenità. E senza il senso di colpa che deriverebbe dall’averlo fatto, almeno in parte, a danno dei loro nipoti, sempre meno numerosi