Corriere della Sera, 18 ottobre 2022
Le vite dozzinali dei peggior criminali
Pochi anni fa, Andrej Umansky, nel corso di una ricerca sulla Shoah nei Paesi dell’Europa orientale, si è imbattuto in un’agghiacciante lettera di un soldato semplice della Wehrmacht, Anton Böhrer, inviata ai familiari qualche tempo dopo l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica (1941).
«Non ci sono molte cose da vedere perché tutto è stato distrutto, a meno che non capiti di scoprire per caso una vecchia abitazione dell’epoca zarista», racconta il militare. «Il quartiere dei grattacieli all’americana è molto noioso, la cattedrale sarebbe molto bella se i russi non ne avessero fatto un magazzino per pezzi di ricambio». Di tanto in tanto, si rallegra Böhrer, «c’è ancora qualche edificio, dove erano state piazzate delle mine, che esplode». Ma «si organizza sempre qualche impiccagione pubblica di ebrei o di altra gentaglia; è la sola punizione che faccia ancora effetto, qui… Dobbiamo essere spietatamente rigorosi e non fidarci nemmeno di chi sembra una persona per bene». Colpisce il fatto che questo soldato «metta sullo stesso piano considerazioni turistiche ed esecuzioni», si sorprende Richard Rechtman in Le vite ordinarie dei carnefici, in uscita oggi da Einaudi. Nel libro di Rechtman – che del tema si occupa da una trentina d’anni come storico ma anche come psichiatra – c’è, fin dal titolo, un’eco delle tesi esposte da Hannah Arendt in La banalità del male (Feltrinelli), il celeberrimo saggio reportage dedicato al processo ad Adolf Eichmann nel 1961 a Gerusalemme.
Rechtman – come mette bene in evidenza nella prefazione Sara Guindani – rileva che «in fondo essere carnefice è un lavoro come un altro, fatto di gesti e ripetizioni, delusioni e soddisfazioni, stanchezza e dolori». L’analisi della vita quotidiana dei carnefici «li colloca vicino alle nostre preoccupazioni più basse». E ad un tempo lontano dalla «fascinazione che il male può esercitare in quello che avrebbe di straordinario o di mostruoso». Rinviandoli «alla loro ordinaria umanità, che ne richiama anche la responsabilità morale e politica». Questo «approccio empirico e prosaico al male», scrive ancora Guindani, «implica un simmetrico cambio dello sguardo rivolto a quanti al male resistono, pronti a lasciare la propria terra e i propri cari, a perdere tutto, talvolta a morire piuttosto che diventare carnefici». Ovunque, passando dagli orrori nazisti a quelli in Cambogia, Ruanda, nella ex Jugoslavia, in un’infinità di altri posti della terra, alle stragi jihadiste.
La classificazione proposta da Jacques Sémelin in Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi (Einaudi) propone due modelli, ciascuno articolato poi in un certo numero di suddivisioni: «distruggere per sottomettere» e «distruggere per sradicare». Coloro che cercano la «sottomissione» si servono dei massacri per costringere le popolazioni civili a piegarsi all’ordine stabilito dalle forze armate, non importa se truppe lealiste o ribelli. Le esecuzioni di massa, spiega Sémelin, mirano a «disciplinare» le popolazioni, a fiaccare i tentativi di sedizione e a punire i civili nel caso oppongano resistenza. Se si riesce nell’intento con un minor numero di morti, meglio. Quelli che perseguono lo «sradicamento», invece, si propongono l’eliminazione fisica della popolazione presa di mira. Il genocidio è il loro fine.
Se si guarda più da vicino, però, «ci si accorge», obietta Rechtman, «che le intenzioni dei pianificatori e dei mandanti non hanno grande influenza sul modo di agire di coloro che perpetrano i massacri». Essi «uccidono alla stessa maniera, che si tratti di sradicare o di sottomettere». Tra «purificare, distruggere, punire, asservire o sterminare, in generale le modalità di amministrare la morte cambiano poco». Meglio, suggerisce Rechtman, fissare cinque parametri: l’asimmetria tra aggressori e vittime; la strategia militare messa in atto per assicurare l’eliminazione di chi va eliminato; la pianificazione dei crimini; il territorio interessato; il reclutamento di coloro a cui è affidato il compito di uccidere.
Quest’ultimo parametro è sicuramente il più controverso, quello che alimenta la maggior parte dei dibattiti. Dal momento che ogni studioso attento «scopre» regolarmente che il reclutamento degli uccisori avviene «tra quanti sono più facilmente disponibili» e non «tra i più motivati e convinti». Sempre. Si tratti di forze militari regolari, di corpi di polizia, di milizie o anche di individui isolati. L’adesione ideologica alla causa è relativamente poco rilevante. Le persone «disponibili a massacrare» sono di ogni genere: c’è certamente gente ideologizzata, psicopatici, delinquenti, pregiudicati. Ma ci sono anche molti «uomini ritenuti ordinari». Anzi, i più sono estranei ad ogni fanatismo. Ovunque volgiamo lo sguardo nella storia, man mano che ci avviciniamo ai giorni nostri troviamo un numero sempre crescente di carnefici (anche donne, sia pure in minor quantità) che «trascorrono più tempo a preparare i loro crimini, a individuare i luoghi più adatti, a scegliere le armi, a selezionare le vittime, ad assicurarsi i contatti necessari, in una parola ad organizzare l’insieme dell’amministrazione, che non a leggere o a studiare qualche compendio ideologico».
Per troppo tempo, scrive lo studioso, si è creduto di poter spiegare il comportamento degli assassini partendo dalle loro ideologie. Ma non per tutti «si può parlare di convinzione ideologica». Molti «non hanno mai letto una sola riga di propaganda, troppo noiosa per i loro gusti». I più percepivano la retorica della «bellezza della purificazione» solo nei suoi rudimenti. Eppure «tutti hanno ucciso, con maggiore o minore passione, più o meno entusiasmo, a volte con cinismo e sadismo, di rado provando rimorso».
Discorso che vale anche per le stragi jihadiste. Con il procedere degli anni, gli obiettivi dei nuovi carnefici non sono scelti – come nel terrorismo classico che prende di mira simboli forti (esponenti della polizia, della politica, della finanza) – per ciò che rappresentano. Ma per quello che sono. Individui giudicati «colpevoli» di essere ebrei, musulmani impuri, poliziotti e persino passanti che «meritano» di essere giustiziati. Le modalità pratiche delle uccisioni si congiungono con quelle delle esecuzioni di massa: assassinare il maggior numero di persone nel minor tempo possibile. E con la massima economia di mezzi. Dal momento che non si tratta di colpire obbiettivi simbolici, ciò che più conta è il numero delle vittime e, di sicuro, il luogo in cui sarà più facile colpirle. L’attentato di Nizza del 14 luglio 2016 sotto questo profilo è quello che, secondo Rechtman, «risponde drammaticamente a questa duplice esigenza»: il maggior numero di uccisi con il minor dispendio di mezzi (un uomo solo «armato» di un camion che in pochi minuti uccide ottantasei persone e provoca il ferimento di altre 458).
Sbagliato, spiega l’autore, parlare in casi come questi di «attentati suicidi». Poiché lo scopo principale è quello di uccidere il maggior numero di persone in un tempo minimo, la «morte del carnefice» è più una conseguenza degli scopi del massacro che non una priorità o una volontà personale dell’uccisore. Pertanto, «anche se la morte degli assassini nel corso del loro attacco è senza ombra di dubbio una particolarità dei crimini jihadisti, i loro autori restano assimilabili a ogni esecutore di stragi di massa».
In un libro dal titolo provocatorio, Sarei stato carnefice o ribelle? (Sellerio), Pierre Bayard ha illustrato, tra le righe, l’imprevedibile percorso di molti francesi che ai tempi dell’occupazione nazista si trasformarono in collaborazionisti attivi – e particolarmente zelanti – dell’autorità hitleriana. Ci voleva del coraggio, scrive Rechtman, «per accettare di rivolgere a sé stesso questa domanda e farne il cuore di un’opera in cui si mescolano ricordi personali e di famiglia».
D’altra parte, è vero che – come nota Bayard – anche gli studiosi più consapevoli delle condizioni storiche che hanno favorito la caduta nella barbarie di milioni di individui sino a quel momento insospettabili, hanno regolarmente omesso di dirci «quel che loro avrebbero fatto se si fossero trovati in quella situazione». Quanto alla domanda posta da Bayard, scrive Rechtman, nessuno in circostanze normali è disposto ad ammettere che avrebbe potuto con tutta tranquillità indossare i panni dello sterminatore. Niente «prova che in ciascuno di noi sia latente un carnefice in potenza che attende la prima occasione per liberarsi». Di sicuro «non esiste neppure un istinto celato nei recessi dell’animo umano, né ci sono pulsioni arcaiche inconsce che permettano di immaginare ciascuno di noi, per una sorta di necessità ontologica, capace di diventare un giorno l’assassino del proprio vicino». Una fortuna. Ma non basta. Dal momento che una cosa è comunque «incontestabile»: «se le condizioni li favoriranno, alcuni diventeranno responsabili di genocidio e con ogni probabilità saranno numerosi». Ed è a questo punto che si pongono altre due importanti domande: è davvero accaduto che degli ordinary men si siano resi disponibili a commettere degli eccidi? Può accadere di nuovo?
Al primo interrogativo, gli storici hanno già risposto di sì. Christopher Browning – in Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia (Einaudi) – ha fornito le prove dell’esistenza empirica di questo tipo di ordinary men, cioè uomini qualsiasi che ricevono ordini terribili e li applicano senza porsi domande. Nell’indagine su un battaglione di riservisti della polizia tedesca incaricati di uccidere migliaia di ebrei in Polonia nel corso della Seconda guerra mondiale, Browning fornisce una testimonianza – definita da Rechtman «eccezionale» – sull’organizzazione concreta di questi massacri. Da questa testimonianza emerge che uomini «non predestinati a diventare assassini», spesso di età matura, nella maggioranza dei casi padri di famiglia fino ad allora risparmiati dalla guerra proprio in quanto riservisti, «razzisti non più della media», certamente meno ideologizzati di tanti altri, accettavano ogni giorno di riprodurre la stessa sequenza di atti che avrebbero dato la morte a dei loro consimili. E lo facevano nella piena consapevolezza dell’esito fatale che riservavano agli uomini e alle donne di cui si dovevano occupare. Invadevano un villaggio «scelto preliminarmente in base alla consistenza della sua comunità ebraica». Tutti gli ebrei, senza eccezioni, gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi, venivano arrestati immediatamente e radunati sulla piazza principale del villaggio. Da lì, venivano trasportati in camion verso il luogo in cui sarebbe avvenuta l’esecuzione. Senza la minima spiegazione, senza alcun capo d’accusa, senza che potessero avere idea del destino che li attendeva, venivano tutti eliminati subito dopo esser scesi dai camion.
E qui si arriva al punto: «la costrizione che gravava su quei poliziotti era tutto sommato relativa poiché, sin dalla prima esecuzione di civili, avevano avuto la possibilità di farsene dispensare». Alcuni «accolsero questa offerta la prima volta e non presero parte al massacro». Ma «nel giro di qualche settimana, tutti senza eccezione parteciparono alle stragi non avendo altra motivazione che il desiderio di uniformarsi allo spirito di corpo della propria unità».
E qui veniamo alla seconda domanda: può accadere di nuovo? Gli accurati studi di Rechtman sui comportamenti dei carnefici nella stagione successiva alla fine della guerra fredda dimostrano che nella maggior parte dei casi – per non dire la totalità – tutto è andato come nella Polonia ai tempi dell’occupazione nazista descritta da Browning. Ovunque. Sempre.