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 2022  ottobre 18 Martedì calendario

Intervista a Ciccio Graziani


«Zoff non ne voleva proprio sapere: “No, che il Vecio si arrabbia”. “Dai, Dino, sei l’unico che può convincere il mister, di te si fida, portalo con una scusa qui davanti alla piscina, che poi ci pensiamo noi”, abbiamo insistito io, Bruno e Marco, fino allo sfinimento».
E quando il flemmatico portierone azzurro ha ceduto ed Enzo Bearzot, ignaro, si è avvicinato, povero lui, a bordo vasca – in quella gloriosa mattina di libertà all’indomani di Italia-Brasile 3 a 2 con tripletta di Paolo Rossi ai verdeoro – dopo un giro corroborante di gavettoni tra compagni, i congiurati Graziani e Conti (il saggio Tardelli invece all’ultimo esitò) lo spinsero in acqua – pluf! – in tuta e occhiali da sole, pipa compresa. «Mica lo sapevamo che il ct non sapeva nuotare, lo abbiamo tirato su appena in tempo, tutto fracico», racconta e ancora si diverte quanto allora Ciccio (Francesco) Graziani da Subiaco come la Lollo, 69 anni, ex attaccante di sfondamento di Torino, Fiorentina e Roma, 132 gol in A, Campione del Mondo in quell’irripetibile 1982, quando si era davvero più felici, oggi commentatore a Sport Mediaset XXL e per Pressing, su Italia 1. «All’inizio Bearzot era furibondo, poi gli è passata: “Ma sì, ragazzi, la vittoria con il Brasile vale davvero un bel bagno”».
Le prime partitelle con i benedettini del convento.
«Zio Donato era il portiere del monastero di Santa Scolastica, la domenica pomeriggio si giocava nel campetto contro i seminaristi che, oh, tiravano certi calci. Un giorno lo zio prese da parte mia madre: “Ma Francesco secondo te ha la vocazione? Sta sempre qua”. Quando mai. Ci andavo perché si mangiava benissimo, specie l’agnello al forno era una favola».
Mamma Annunziata non cucinava bene?
«Altroché, però non c’erano tanti soldi, il pasto nostro era broccoli e patate ripassati, il pollo o il coniglio soltanto la domenica, io sono cresciuto a frittata e mortadella. E la mattina, prima di scuola, l’uovo sbattuto con lo zucchero».
Quattro figli, due maschi e due femmine, lei il più piccolo, era anche il cocco di casa?
«Un pochetto. Quando mamma preparava la polenta, la versava sulla spianatora di legno in mezzo al tavolo e ci metteva una salsiccia per ciascuno. C’erano dei confini stabiliti entro cui potevi infilare la forchetta, da sedia a sedia, ma i miei fratelli spesso si rubavano pure la mia porzione, allora lei me ne regalava metà della sua».
Papà Antonio era muratore.
«Usciva alle 6 di mattina e tornava alle 7 di sera, era sempre stanco, ma buono come il pane, mai uno schiaffo. Era mamma che mi gonfiava come una zampogna perché rompevo un paio di scarpe a settimana per giocare a pallone. O perché le avevo fregato qualche spicciolo dal borsellino per le sigarette, o mi dimenticavo di comprare il latte. “Ohi mà, la partita non era finita!”. Uh, quante me ne ha date! Ogni tanto agitava il mattarello, ma solo per mettermi paura».
A 12 anni era aiuto imbianchino.
«D’estate, con mio fratello, scartavetravo le persiane o i cancelli e poi ci davo due passate di vernice. Ho imbiancato pure i muri dell’autoscuola del padre di Gina Lollobrigida».
Agli inizi fu scartato perché troppo gracile.
«Non passai il provino con Roma, Lazio e Juve, ero così secco che mi facevi la radiografia con un accendino. Mi presero al Bettini Quadraro, zona Cinecittà, e dopo all’Arezzo. Nel frattempo ero cresciuto, forte e robusto. Ma papà non ha mai visto una mia partita, nessuna, nemmeno in Nazionale, gli veniva l’agitazione. Però quando segnavo pagava da bere agli amici dell’osteria».
Nel Torino, in coppia con Pulici, diventaste i Gemelli del Gol: 200 reti in 8 campionati (102 Paolo, 98 Francesco), lo scudetto nel 1976.
«Eh sì, ma senza gli assist straordinari di Claudio Sala non saremmo andati da nessuna parte. Pulici era il compagno ideale, eravamo complementari, in campo non ci parlavamo nemmeno, bastava uno sguardo d’intesa. “Ne fermi uno e ti segna quell’altro”, si disperavano gli avversari».
Com’è fare gol?
«Una felicità enorme, un’emozione meravigliosa che ti scoppia nel cuore. Dura poco, sette, dieci secondi, ma sono i più belli della tua vita».
Un calciatore diventa davvero forte se si allena con gusto e con amore, sante parole sue.
«Non basta essere bravi, ci vuole impegno e sacrificio. Prendiamo Vincenzo D’Amico. Con Gianni Rivera è stato forse il più bravo che abbia mai visto, doti eccezionali. “Se ti impegnassi di più, potresti diventare fantastico”, gli ripetevo. Invece appena sentiva la fatica si fermava».
Una volta infilò i guantoni e giocò in porta.
«Coppa dei Campioni 1976-77, gara di ritorno, Torino contro Borussia Mönchengladbach, in trasferta. Minuto 71. Eravamo rimasti in otto, espulsi Caporale, Zaccarelli e pure il portiere Luciano Castellini. Il mister Radice scelse me. “Ciccio, vai tu in porta”. La mantenni inviolata. Il pubblico di Düsseldorf alla fine tifava per noi, a ogni mia parata partiva l’applauso».
Lisci sotto porta ne ha collezionati?
«Lisci veri e propri no, certo ho sbagliato qualche pallone a quattro metri dalla rete».
O da undici, come il rigore spedito sulla traversa in Roma- Liverpool del 1984.
«Me lo sogno ancora la notte».
Portava i capelli lunghi.
«Quando li avevo, sì. Andavano di moda, li curavo molto. Ero un bel ragazzetto, eh. Ci tenevo al look, la domenica vestirsi era un rito. A 13 anni volevo i pantaloni bicolori e scampanati di Celentano, mamma non mi accontentava, così andai a Roma, a via Sannio, e ne comprai un paio quasi uguali alla bancarella, li pagai 8 mila lire».
Figurati quando ha cominciato a guadagnare.
«Gli abiti di Versace mi mandavano al manicomio, giacche colorate, camicie a fiori, cravatte strane, mi sbizzarrivo, un megalomane, tutto abbinato. Di scarpe ne compravo poche, con il collo del piede grosso era difficile trovarle».
Tatuaggi?
«Mai piaciuti, le emozioni belle le porti dentro di te, non serve scriverle sulla pelle».
Orecchini?
«Mai. Mica perché li portava Maradona dovevamo imitarlo tutti per forza».
Si è sposato giovanissimo.
«Avevo 21 anni, Susanna 17, il papà ha dovuto firmare i documenti. La vidi passeggiare per Arezzo con un fazzoletto giallo e blu del quartiere Santo Spirito. Colpo di fulmine».
«Non eravamo coscienti di essere così forti», ha raccontato per i 40 anni del Mundial ’82. Il primo sospetto?
«Dopo la vittoria con l’Argentina abbiamo capito che si poteva fare e ci siamo detti: proviamoci. Oltretutto, prima di Italia-Brasile, i giornalisti brasiliani insistevano che i loro calciatori avevano paura di noi, ci sembrava impossibile».
Divideva la stanza con Giancarlo Antognoni. La notte lì si dormiva?
«Più o meno, era Tardelli “Il Coyote”, quello sempre insonne. Giancarlo si fece male contro la Polonia, era depresso, convinto di non poter giocare la finale. La sera prima provai a consolarlo. “Dai che il professor Vecchiet ti ha messo la gommapiuma tra il calzino e la scarpa, semmai ti faranno un’iniezione per il dolore”. “No, no, vedrai che non ce la faccio”. “Ce la fai”. “No, non ce la faccio”. Andammo avanti così per due ore. Era mezzanotte, mi si chiudevano gli occhi. “Ascolta, non lo so se domani giochi, ma se non mi lasci dormire, domattina sarò uno straccio rimbambito e non giocherò nemmeno io”».
Antognoni no, lei i nvece giocò. Ma al minuto 7 uscì per infortunio alla spalla, bella sfiga.
«Eh, a fine partita con Giancarlo ci siamo guardati: “Certo la nostra stanza non è stata fortunata”, ci siamo detti. Ma subito dopo: “Che ci frega, siamo campioni del Mondo!”
Cabrini riceveva tonnellate di lettere e regalucci dalle ammiratrici. A lei niente?
«Eh, Antonio era speciale, uno scapolone, io invece ero già ammogliato... Certo per noi era diverso, io a Roma andavo dal macellaio, dal fruttivendolo, a fare una passeggiata in via Veneto, ogni tanto mi chiedevano un autografo ma niente di che. In ritiro a Brunico giocavo a carte con i tifosi fuori dall’hotel, i calciatori oggi non si godono niente, stanno sempre chiusi, soli».
Il «suo» Paolo Rossi.
«Paolo era gentile, solare, sempre con il sorriso. Dopo l’Argentina lo vidi triste, solitario, a bordo piscina. “Che ti prende?”. “Non sto giocando bene, ho paura che il mister contro il Brasile mi lasci in panchina”. “Stai tranquillo, vedrai che giochi”. Giocò e segnò tre gol. Dopo, negli spogliatoi, mi abbracciò in silenzio e io quell’abbraccio non lo dimenticherò mai».
Nel 1994 per poco non abbiamo avuto Ciccio senatore.
«Mi candidai con Forza Italia perché me lo chiese Berlusconi. “Ma io non so niente di politica”. “Proprio per questo”. Me ’mbriacò di parole e accettai. Presi 27 mila voti ma per i calcoli del proporzionale fu eletto un altro. “La ringrazio, Cavaliere, però non mi cerchi più”».
Aveva un programma?
«No, però mi faccio in quattro per gli altri, come in campo, ero felice se un compagno mi ringraziava, farsi volere bene è bellissimo».
In tv porta certe giacche sgargianti.
«Mia moglie mi supplica: “Quella no, ti prego”, ma io non la ascolto, mi piacciono i colori, i quadri. So che a Mediaset mi vorrebbero più sobrio, ma io sono così. Forse a volte ho esagerato con il giallo fosforescente e il verde acceso».
E quegli occhialini colorati.
«Li tengo in una vetrinetta, ne avrò ottanta».
Due anni fa cadde dalla scala: un volo di almeno 6 metri.
«Riparavo la rete del campo di calcetto. Undici costole rotte, sei vertebre incrinate, mi è andata di lusso. Secondo me, mentre cadevo, Gesù ha detto a San Pietro: “Manda un angelo ad acchiapparlo”, altrimenti sarei morto».