Corriere della Sera, 18 ottobre 2022
La nuova capitale del centrodestra
Da ieri Arcore non è più la capitale del centrodestra, per la prima volta guidato da una personalità politica.
La visita di Berlusconi nella sede di FdI ha simbolicamente segnato questa doppia novità storica. E l’accettazione del cambio epocale da parte del Cavaliere chiude un inizio molto travagliato, durante il quale il presidente di Forza Italia è parso non accettare il risultato delle urne. La reazione ruvida è servita a Meloni per esercitare il suo primato nella coalizione: chiariti i ruoli, la premier in pectore si giocherà la leadership nella difficile prova di Palazzo Chigi, dove non sarà solo chiamata a destreggiarsi tra i delicati dossier di governo ma dovrà mostrare anche la capacità di rapportarsi con i partner dell’alleanza.
E su questo punto Meloni è già a un bivio: nella gestione quotidiana dovrà scegliere se adottare il metodo della collegialità o preferirgli la logica dell’accentramento. Perché è vero che gli elettori le hanno affidato un mandato pieno, e che questo mandato sarà l’alfa e l’omega della legislatura. Ma il mare tempestoso che dovrà affrontare, imporrà in Consiglio dei ministri una coesione non formale. E un eccesso di leadership potrebbe innescare meccanismi di auto-difesa negli alleati. Il tema è presente nelle analisi dello stato maggiore di FdI, dove sono consapevoli che la «staffetta» tra Meloni e Berlusconi non ha definitivamente chiuso la partita con Forza Italia e nemmeno con la Lega.
Semmai il cambio della guardia nel centrodestra presuppone «un cambio di approccio» con i partner da parte di chi ora li guida: la capacità cioè di coinvolgere nelle dinamiche parlamentari e di governo l’area più riottosa dell’alleanza. Tra gli azzurri, l’accordo sui ministeri ieri era vissuto in alcuni settori come un anticipo di «Anschluss», di un’annessione da parte di Meloni. Quanto alla Lega, la generosità sugli incarichi dimostrata dalla premier in pectore verso Salvini, si combina con le difficoltà di un partito dove Bossi ha rotto il clima di tregua interno, riproponendo a modo suo la «questione settentrionale». Un evento mediaticamente passato in secondo piano, ma che politicamente è stato colto da FdI. Dove hanno notato un passaggio del discorso d’insediamento pronunciato dal neo presidente della Camera: quando in Aula Fontana ha citato il leader storico del Carroccio, Giorgetti si è subito levato in piedi chiamando la standing ovation.
È chiaro quindi che l’intesa sulla squadra di governo non esaurirebbe (e non esaurirà) i problemi della coalizione, messa in tensione dai problemi interni delle forze che la compongono. Una situazione per certi versi fisiologica, visto che le urne si sono chiuse meno di un mese fa. Ma all’esecutivo non sarà concesso tempo per una fase di assestamento, perché le due crisi – quella interna e quella internazionale – lo costringeranno immediatamente ad affrontare una situazione senza precedenti dal secondo dopoguerra: per il Paese, l’Europa e l’Occidente.
Meloni non avrà a disposizione una fase di rodaggio. Perché una parte consistente dell’opposizione fa già mostra di un processo di radicalizzazione, in Parlamento come nelle piazze. E perché i partner internazionali hanno già fatto capire di tenere sotto osservazione il primo gabinetto italiano guidato dalla destra. Così la leader di FdI dovrà superare un doppio e difficile crash-test, per costruire un nuovo centrodestra e al contempo portare l’Italia fuori dai marosi della recessione. La durezza con la quale ha avvisato per tempo gli alleati che non si lascerà quotidianamente logorare, dà l’idea dell’obiettivo politico di Meloni. Ma è nella stanza dei bottoni che dovrà dar prova delle sue capacità di governo, cercando – come dice – di «unire l’Italia»: l’esame che non la fa dormire e le fa «tremare le vene ai polsi» si avvicina.