la Repubblica, 18 ottobre 2022
Una blanda polemica tra Serra e Molinari sulle scelte e sul male
Caro Direttore, ho una richiesta da farti. Chiedo che il mio giornale, edizione online, non pubblichi più fotografie dei fratelli Bianchi, specie quella canonica (tipo figurine Panini) che li ritrae affiancati, in posa da combattimento. Si tratta di due giovanotti che hanno ammazzato a calci e pugni un ragazzo inerme. Quasi ogni giorno, da molti mesi, vedo i loro tatuaggi, la loro aggressività palestrata, la loro postura da bulli, campeggiare sul video del mio computer, che è il mio posto di lavoro quotidiano. I fratelli Bianchi sono diventati una specie di icona permanente. Una rubrica fissa. Preferirei di no.
Ho profondo rispetto per chi lavora alla nostra edizione online. È quella la trincea, sul fronte della sopravvivenza dell’editoria. Per dirla volgarmente: so benissimo che è soprattutto il grande traffico dei clic a garantirci la pagnotta, almeno per il momento. Ma non ad ogni costo. Il costo non può essere convivere, per mesi, con i fratelli Bianchi. Non me la sento. Non è il mio ramo. Non è quello che pensavo potesse accadermi, da grande, quando ho cominciato a scrivere sui giornali.
Non capisco niente del traffico dei clic, e non invidio chi finge di sapere quali sono le leggi che lo regolano. Mi permetto ugualmente di suggerire una via d’uscita. Se proprio si deve parlare quasi ogni giorno dei fratelli Bianchi, si pubblichi la foto della loro vittima, Willy Monteiro. Si chiama: scelta.— Michele Serra
grazie per la lettera, per la franchezza e per porre una questione che è al centro del nostro lavoro, su qualsiasi piattaforma. È giusto ed opportuno pubblicare la foto del carnefice se potrebbe essere sufficiente far conoscere il volto della vittima? In altre parole, fino a dove si può spingere il diritto/dovere di cronaca se la pubblicazione di una foto dei killer — nel caso specifico i fratelli Bianchi — può portare a trasformarli in modello negativo e dunque da seguire da parte di menti particolarmente vulnerabili? È un argomento forte, importante.
Tanto per aggiungere valore a tale domanda basti ricordare che Osama bin Laden nel pianificare l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 tenne conto dell’ora di massimo ascolto dei network tv del mattino al fine di amplificare il suo orrendo crimine, nella convinzione che la diffusione delle immagini dell’attentato potessero non solo testimoniare l’invincibilità della Jihad ma anche portare a reclutare ovunque nel mondo ulteriori jihadisti. E sempre per lo stesso motivo l’Isis documentava le decapitazioni. E sempre per lo stesso motivo quando il 7 luglio 2005 Al Qaeda attaccò Londra, la Bbc scelse per lunghe ore il black-out totale delle immagini: per impedire che diventassero un “domino del Male” nel cuore del Regno Unito. Tutto questo per dirti quanto seriamente prendo la tua obiezione. Quanto è motivata, legittima.
Perché pone in ultima istanza una domanda cruciale ovvero se dobbiamo conoscere il Male, se dobbiamo guardarlo nel volto, se gli dobbiamo permettere di entrare nella nostra mente, nelle nostre vene. Se dobbiamo esporci o meno al rischio di venirne contagiati perché ognuno di noi, nel profondo di sé, è vulnerabile al contagio dell’odio per il prossimo. Ho riflettuto spesso su questa domanda. Mi è capitato di farlo da reporter, davanti a feroci immagini di cronaca nera, da corrispondente, davanti alle brutalità umane in zona di guerra, e quindi da direttore allorché uno o più lettori, nelle circostanze più imprevedibili, mi hanno rimproverato di aver pubblicato immagini — ma a volte anche notizie scritte — potenzialmente capaci di moltiplicare il Male.
La risposta che in tutte queste occasioni mi sono dato, prima con qualche esitazione e poi con una crescente convinzione, è che è giusto, opportuno, necessario conoscere il Male e guardarlo negli occhi. Innanzitutto, perché il Male è presente fra noi e conoscerlo aiuta a proteggersi dalla sua moltiplicazione. In secondo luogo, perché celarlo, nasconderlo — anche con la migliore delle intenzioni — farebbe il suo gioco, ovvero gli consentirebbe di diffondersi contando sempre sulla capacità di sorprendere le vittime. Infine, ma non per importanza, perché credo fermamente nel libero arbitrio ovvero nel fatto che ognuno di noi, posto di fronte alla scelta fra Bene e Male, deve poter scegliere perché è questa scelta che lo definisce. Certo, ci sarà sempre chi sceglie il Male ma negarlo non ci aiuta a combatterlo. Insomma, sono profondamente convinto che la conoscenza del Male aiuti tutti noi ad avere maggiore contezza del mondo in cui viviamo, ci aiuti a fare la scelta migliore nel confrontarlo e consenta di far prevalere la conoscenza grazie alla forza del libero arbitrio.
D’altra parte, mettiamoci nei panni di una donna migrante che perde il figlio nelle acque del Mediterraneo e si trova davanti all’immagine del suo corpicino su una spiaggia sperduta. Quella donna vuole o no che la sua tragedia sia conosciuta? Io credo che lo voglia. E quella donna vorrebbe o no che fosse noto a tutti il volto del trafficante di esseri umani che l’ha trasportata? Credo ancora di sì, lo vorrebbe. Perché tanto più buio èil volto del Male, tanto più importante è illuminarlo per farlo conoscere, per generare anticorpi in ogni essere umano. È la mia fiducia nell’intima bontà dell’uomo che mi spinge a credere nel libero arbitrio come fonte di difesa collettiva.
Ammetto che è una scelta rischiosa e ammetto che è una scelta basata su valori personali ma può consentire al giornalismo di fare un lavoro migliore, perché è al servizio della trasparenza. E si basa sulla convinzione che ogni lettrice e lettore è in grado di fare la scelta migliore. Garantendo sempre, ovviamente, le linee rosse che la legge prevede — in Italia come in Europa — nel tutelare il rispetto delle vittime, dei minori e la dignità di ogni essere umano.
— Maurizio Molinari