La Stampa, 18 ottobre 2022
Le donne Alpha del Cav.
Nel fantasy di riferimento di Giorgia Meloni è una donna, Eowyn, che invera le profezie e compie l’impresa fallita da ogni uomo prima di lei: schiantare l’invulnerabile capitano dell’esercito nemico e il suo spaventoso drago. Dovevano avvertirlo, Silvio Berlusconi. Raccontargli almeno la trama. Magari sarebbe riuscito a evitare la Canossa che gli è toccata ieri, salire le scale di via della Scrofa, accomodarsi nella stanza che fu dell’odiato Gianfranco Fini, baciare la pantofola della premier in pectore rovesciando lo spettacolo di vassallaggio che per venticinque anni abbiamo visto ripetersi ad Arcore o a Palazzo Grazioli. Un inedito assoluto nella storia, e però, a guardar bene, in perfetta sintonia con le biografie politiche dei due personaggi.
Il confronto e conflitto con le donne Alfa è da sempre il tallone d’Achille del Cavaliere, che nella sua vita ne ha incrociate molte, sempre rimanendo scottato. Sono quasi tutte donne – Rosy Bindi, Ilda Boccassini, Angela Merkel, Giulia Bongiorno, senza contare la ex moglie Veronica Lario – quelle che gli hanno tenuto testa, rifiutando le lusinghe in cui il fondatore di Fi è stato gran maestro. Sono quasi tutte donne quelle che invece di calcolare i vantaggi di un accomodamento, invece di ridere alle sue battute, invece di incassare le sue prepotenze, lo hanno mandato pubblicamente a quel paese.
Allo stesso modo, Giorgia Meloni è cresciuta sulle spalle di una serie di Uomini Alfa che l’hanno sottovalutata, mai sfiorati dal sospetto che la figurina scelta dal mazzo per sedare una lite interna, rinfrescare un’immagine, conservare il potere attraverso una marionetta da palco comiziale, potesse emanciparsi coltivando innanzitutto gli interessi della sua carriera. Sono stati loro a costruire la scala su cui Meloni si è arrampicata, convinti di favorire una “fedelissima” che avrebbe sempre giocato la loro partita. Uno dopo l’altro sono stati duramente disillusi: basti pensare alla disinvoltura con cui Meloni scaricò Gianfranco Fini che ne aveva fatto un personaggio, alla velocità con cui scartò il suo vecchio mentore Fabio Rampelli dal triumvirato di FdI preferendo Ignazio La Russa, alla scioltezza con cui pure La Russa è stato avvicendato dal giro tutto nuovo di consiglieri che oggi determinano liste, strategie, incarichi.
C’era insomma una predestinazione fatale alla sconfitta, un karma avverso, nello scontro avviato dal Cavaliere la settimana scorsa col pizzino esibito sul banco del Senato per ricordare a Meloni il dovere della riconoscenza e della sottomissione. In quel biglietto la frase chiave, oltre l’invettiva sulla supponenza, prepotenza, arroganza della leader di FdI, era il giudizio finale: «Una con cui non si può andare d’accordo». Altre volte è stato pensato, scritto, detto, a proposito di altre donne Alfa, quasi sempre con risultati catastrofici. Rosy Bindi trasformò l’insulto berlusconiano («Lei è sempre più bella che intelligente») prima in una replica fulminante («Non sono una donna a sua disposizione») e poi in una campagna, persino in una t-shirt indossata da molte donne in Parlamento, dando la stura alla polemica sul sessismo del Cavaliere che nel gennaio 2010 sarebbe sfociata nelle colossali manifestazioni di Se Non Ora Quando. Da uno di quei palchi, a Roma, applauditissima, parlò pure Giulia Bongiorno, e anche lei risultò una con cui era impossibile accordarsi. «Toglietemela dai piedi, non voglio vederla», diceva Berlusconi, mentre lei da presidente della Commissione Giustizia spazzava dai tavoli la legge blocca-processi e le norme bavaglio sulle intercettazioni faticosamente acchittate da Niccolò Ghedini a misura del suo capo. E poi Ilda Boccassini, Ilda la Rossa, sbeffeggiata nelle gare di burlesque dalle ragazze del Presidente: vai a pensare di ritrovarsela sul banco della pubblica accusa proprio nell’inchiesta sulla minorenne di Arcore, il cosiddetto Rubygate, con la sua scia processuale che ancora oggi minaccia di decadenza il Cavaliere (a causa di una legge firmata da un’altra donna, Paola Severino).
L’elenco potrebbe continuare con Angela Merkel, che il Cavaliere, appena diventato premier del suo ultimo governo, credeva di addomesticare lasciandola impalata ad aspettarlo sul ponte sul Reno, alla cerimonia per i 160 anni della Nato, mentre lui telefonava passeggiando sui prati. Pure lei era una troppo rigida, troppo rigorosa, pure lei una «con cui non si può andare d’accordo», ma alla fine fu Berlusconi a rimanere pietrificato dalla sfiducia europea nella crisi dello spread, e anche quella partita fu persa mentre Angela restò al potere, amatissima, per altri dieci anni.
E tuttavia, nella galleria degli scontri con le «supponenti, prepotenti, arroganti» che si è trovato davanti nella sua infinita carriera, mai in precedenza si era visto Berlusconi acconciarsi a una Canossa così spettacolare, pubblica, amara. Un atto di riconoscimento della nuova leader-premier che stupisce soprattutto per un motivo: comunque vada a finire su ministeri, incarichi, ruoli, Berlusconi non riavrà indietro la parte protagonista a cui ambiva, la corona del fondatore indiscusso e del patriarca imprescindibile della coalizione. Comunque si riassestino gli equilibri del centrodestra, questa giornata racconterà un’altra storia, farà di lui un altro personaggio: qualcosa di molto simile al leggendario drago infilzato a sorpresa dalla fanciulla