il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2022
Filippo Timi: “Il fascismo oggi? Cazzate”
Si intitola Rapiniamo il duce, ma Mussolini non c’è. C’è lei, Filippo Timi, ovvero il gerarca fascista Borsalino.
Ai film bisogna sempre rapportarsi così, come se il titolo parlasse di te, come se fossi tu il protagonista: devi difendere il tuo ruolo, giacché tutti fanno la storia. Ed ecco Borsalino, un ducetto, un mediano del fascismo.
Nel film di Renato De Maria, in cartellone alla XVII Festa del Cinema di Roma e dal 26 ottobre su Netflix, la proverbiale zona rossa diventa zona nera: l’Italia oggi?
L’Italia non è in zona nera, non è tornato Mussolini, non diciamo cazzate. Le cose sono andate come sono andate, ma oggi non c’è ignoranza, a partire dai giovani.
Ignoranza equivale a fascismo?
L’ha detto lei. Per me ignoranza è essere abbindolati da un pensiero, di qualunque colore esso sia.
Lei di che colore è?
L’altro giorno sul set di Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo la truccatrice ha messo un pezzo di Gaber – Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono –, ascoltavo e che cavolo… però mi è piaciuto che all’ultimo dica “per fortuna per fortuna lo sono”. Ecco, io mi attacco un po’ a questo.
Prima di Borsalino aveva fatto Benito Mussolini e il figlio Benitino in Vincere di Marco Bellocchio.
Non è che mi stia specializzando in fascismo, eh. Rapiniamo il duce è un Marvel, un cartoon, è come se i sentimenti, già estremizzati dalla guerra, potessero permettersi tinte definite, seppur sfaccettate. Mi spiego: le grandi rivoluzioni nascono da desideri umani, Carlo Magno voleva conquistare la moglie, Roberto Benigni ha fatto La vita è bella per Nicoletta (Braschi, ndr) e si sente. Il mio Borsalino si muove per amore, per quel che egli pensa – ma non lo è – sia amore. Che illusione, come la politica.
Non è la sua prima volta con Netflix, nessuna pregiudiziale alle piattaforme?
Dice bene Simonetta del quinto piano, “tutto pe’ tutti”. Chiaro che ci si possa spaventare dalle tante possibilità, però che opportunità: io che non me ne frega un cazzo del basket mi sono appassionato a The Last Dance, evviva Michael Jordan, ora so che esiste un eroe contemporaneo. Grazie a Netflix.
Sempre alla Festa di Roma, e dal 17 novembre in sala, incarna Giordano Bruno ne Il principe di Roma di Edoardo Falcone, con Marco Giallini. L’eresia oggi è ancora possibile?
Penso a Brian Greene e la Teoria delle stringhe, una tesi che non può essere confutata, come pure il multiverso. Ma credo che la vera eresia oggi stia in ciò che non tende alla luce bensì all’oscurità, che è distruttivo anziché costruttivo.
La guerra?
La pandemia. Ci ha distrutto, ci ha inginocchiato tutti, oggi c’è necessità di riallacciare rapporti, di ripartire. Anche la guerra, certo. Quando scoppia quella in Ucraina, si erano da poco riaperte le discoteche, un amico mi invita, mi cambio e all’ultimo mi dico: “Ma che cazzo vado a ballare?”. Mi è successo solo quella volta, perché per fortuna anche in queste situazioni uno c’ha voglia di vivere.
E l’arte?
Al posto dei tagli di Fontana oggi prediligo le cuciture di Burri. Qualcosa che ripara anziché squarciare.
Il Bartolomeo di Giallini, che brama il titolo nobiliare più di ogni cosa, è un egoista. Lei, Timi?
Spendevo i soldi che mia madre mi dava per le scarpe per i libri: lei si incazzava, egoisticamente era preoccupata che andassi in giro scalzo. Io non ero egoista, anzi, forse sì, ma magari per comprarmi poi due paia di scarpe attraverso quei libri. Come dice Simonetta, “tutto pe’ tutti”.
Ma chi è questa Simonetta?
(Ride) Una inquilina del mio palazzo, simpatica.
Il suo imperativo oggi?
Cercare un valore nelle persone che incontro, di non dare per scontato che non mi interessino o che c’ho i cazzi miei, no. Scanso la superficialità, almeno ne ho l’impressione.
Tom Hanks di recente ha dichiarato che nella sua carriera ha fatto quattro film davvero buoni. Lei?
Non sono Tom Hanks, sono più di bocca buona. Ogni film che ho fatto è stato importante, per le persone che ho conosciuto. A me piace molto farli, i film, non rivederli.
Venticinque anni di carriera: riflessioni?
Un film è diverso dal teatro, si lavora per quel che arriverà dopo, è un godimento postumo, ma ci si sbaglia. Oggi lo so: si inizia a lavorare da quando ti passano a prendere a casa la mattina. E quindi mi vivo tutti i passi: quando cammino cammino, quando magno magno.
Mi dà un aggettivo per Dostoevskij (il film, ndr)?
Non voglio dire niente. I gesti artistici lavorano con l’armonia, è come annaffiare un seme. Adesso c’è la campana, se la sollevo chi lo sa che succede?