Corriere della Sera, 17 ottobre 2022
Intervista a Claudio Bisio
Claudio Bisio è uno dei rari casi di comico che è riuscito ad avere successo in tutti i campi: al cinema è passato dall’Oscar per Mediterraneo ai milioni di incassi di Benvenuti al Sud; a teatro è stato applaudito tanto con i Comedians di Salvatores quanto con i monologhi di Pennac; in tv tre programmi di culto: Zelig, Mai dire gol, Le Iene.
Di solito si dice che uno buca lo schermo però dal vivo non funziona, oppure che chi ha i ritmi televisivi non ha quelli cinematografici e viceversa.
Per lui la regola non vale.
Com’è il vero Salvatores?
«Un secchione pazzesco; uno che studia, guarda, vede, legge come un matto. Un atteggiamento che stupisce rispetto alla sua apparente leggerezza, al fancazzismo che sembra attraversarlo. Le prove con lui si trasformavano sempre in una partita di calcetto; non a caso si circonda di gente come me, Abatantuono, Paolo Rossi: un gruppo di cazzari».
Come fu il set di «Mediterraneo»?
«Eravamo su un’isola allora sconosciuta, c’era il cartello con la scritta Qui inizia l’Europa, eravamo isolati da tutto. Era l’anno del Mondiale di calcio, Italia 90, e non c’era nemmeno un televisore. Si figuri: io, Abatantuono e Salvatores senza televisore durante i Mondiali. Abbiamo fatto una colletta e mandato uno a Rodi – otto ore di traghetto – per comprare un televisore in bianco e nero. Vedevamo le partite spostando ogni cinque minuti a mano l’antenna. Per me non esiste Schillaci, io lo chiamo ancora Schillazzi perché sentivamo il commento in greco».
Con Paolo Rossi avete condiviso vita e palchi centinaia di volte...
«Ha pochi anni più di me ma l’ho sempre considerato un fratello maggiore. Ci vedevamo al Derby, che era ben diverso dallo Zelig: era il locale notturno della mala, il pubblico era fatto di gente che arrivava dalle corse dei cavalli, maîtresse e biscazzieri; non era semplice far ridere quel tipo di spettatori. Ma Paolo portava lì i testi di Stefano Benni, monologhi intelligenti e colti uniti alla sua verve comica. Gli dicevo che era pazzo, io teorizzavo che bisognava separare le anime: al cabaret improvvisavo, il mio modello era Belushi; mentre il teatro era rappresentato da Pirandello, Sofocle, Shakespeare. Fu una lunga discussione filosofica. Io distinguevo le due cose, lui le univa. Ma alla fine devo ammettere che aveva ragione lui: al cabaret ha portato il teatro e in teatro ha portato il cabaret. È stato un maestro, mescolare alto e basso è stata la lezione che tanti hanno imparato da Paolino».
Quando ha deciso di fare l’attore?
«Durante un’occupazione al liceo (lo scientifico, il Cremona, a Milano). Facevo già teatro e chiamai Dario Fo per Mistero buffo. Rispose subito di sì e io rimasi affascinato da quell’affabulazione, dai versi di Cielo d’Alcamo e di Cecco Angiolieri. Lì, in quel momento, mi è venuta l’illuminazione; mi dissi: io voglio fare quella cosa lì, senza sapere bene cosa fosse».
«Chi fa teatro sceglie un mestiere senza stipendio»: gliel’hanno rinfacciato i suoi genitori?
«Sono tutt’altro che figlio d’arte. Mia mamma era maestra elementare, mio papà un rappresentante che vendeva alle aziende le essenze per fare liquori. Però non mi hanno né avversato né invogliato, anche perché sono uscito di casa a 20 anni e mi mantenevo da solo. Finito il liceo ho avuto la classica crisi esistenziale dei 20 anni. Io nasco anarchico, credevo tanto nella rivoluzione – ora sorrido al pensiero – ma poi ho capito che era un’utopia. I miei si erano separati e non volevo prendere posizione; la fidanzata mi aveva lasciato... Insomma senza fare il melodrammatico, ho fatto la scelta di levarmi dalle scatole e andare a fare subito il militare».
Com’è l’anarchico che fa il militare?
«Credo di aver sparato un colpo talmente maldestro che han capito subito che era meglio mettermi in ufficio. Ma è stato utile perché ho imparato a battere a macchina. Con il senno di poi penso che fare il militare sia stato come superare la linea d’ombra, diventare adulto».
Una carriera di successi, qualche serata no?
«Mi ricordo che quando facevo il cabaret – adesso lo chiamano stand-up, ma sempre quello è – confrontandomi sempre con Paolo Rossi sostenevo l’idea che quando fai cabaret a differenza del teatro devi andare senza testo, senza rete: devi solo improvvisare. Lo teorizzavo ed ero così folle da metterlo in pratica. Ne venivano fuori serate stupende, strepitose (me lo dico da solo) ma altre drammatiche, disastrose dove avrei voluto solo schiacciare un bottone e scomparire. Poteva essere il Derby, o lo Zelig (il locale), erano gli anni ‘80. Vedi salire sul palco un pelatino sconosciuto: se non ti fa ridere è un disastro. Dopo un paio di serate veramente storte ho cambiato idea: almeno una traccia, un inizio e una fine li devi avere, poi in mezzo puoi anche improvvisare, ma con il paracadute. Ho capito che l’improvvisazione è una digressione su qualcosa che sai dove va a parare».
«Zelig» (il programma) cosa rappresenta per lei?
«Per me non è televisione, è cabaret con le telecamere; è un programma che ci è esploso tra le mani, nel 2003 abbiamo vinto tutti i Telegatti del mondo».
Perché a un certo punto ha detto basta?
«Tutte le cose devono avere una fine, non possono continuare per sempre. Sentivo la stanchezza mia e forse anche del pubblico, o forse confondo la mia stanchezza personale con quella della comicità italiana; sentivo un po’ di ripetitività in quello che facevo e in quello che c’era intorno a me».
Vanessa Incontrada ha detto di lei che è un «marito mancato».
Ride: «Per me lei è un’amante realizzata... Scherzo eh! L’ho conosciuta che era ragazzinissima, le voglio un bene dell’anima; quando sono in Toscana andiamo in bicicletta insieme. Tra noi c’è un afflato e una sintonia totale, so che si fida di me; anche quando la tratto male lei sa che lo faccio per una risata. Ci punzecchiamo come Sandra e Raimondo, per questo forse ha detto che sono un marito mancato... L’ho chiamata l’altro giorno per le prove del prossimo Zelig (a novembre su Canale 5), mi sono raccomandato che venisse, ma dentro di me spero che non venga. Meno lei sa, più ci divertiamo».
È stato due volte al Festival di Sanremo, con Fazio e con Baglioni.
«La prima volta ero rilassato, portai un testo di Michele Serra eccezionale, giocato sul finto populismo, invitavo a mandarli tutti a casa, ma poi si capiva che era riferito non ai politici ma agli elettori, a tutti noi; è stato una bomba. Anni dopo il clima era diverso e ho fatto una grande fatica: in oltre 40 anni di carriera non mi era mai capitato di essere inseguito da troupe che volevano estorcermi mezza frase, avevamo le guardie del corpo che ci seguivano dappertutto. Io sono uno che ha sempre parlato apertamente, magari anche dicendo cazzate, ma non ho mai avuto paura di espormi, dire come la penso. Invece in quei giorni lì avevo paura».
«Benvenuti al Sud», remake del francese «Giù al Nord», fu un successo clamoroso in coppia con Siani.
«Io avevo sempre avuto qualche dubbio sui remake, ma lì ho capito che possono anche essere una figata, puoi copiare le scene forti e aggiungere parti che nell’originale sono meno forti... avevo sbagliato tutto. Racconto un altro episodio che si aggiunge a questo e a quello su Paolo Rossi, così da questa intervista risulto definitivamente come un pirla. Quando arrivavo al Sud, io all’inizio andavo in giro con un giubbotto antiproiettile perché avevo paura che mi sparassero. L’idea di Luca Miniero, il regista, mi sembrava eccessiva, a un certo punto gliel’ho detto: ma siamo sicuri? Non è troppo offensivo? Invece aveva ragione. L’ho visto decine di volte al Sud e ridono sempre tutti».
Il suo incubo ricorrente?
«Entrare in scena in ritardo ogni volta per un motivo diverso, oppure non ricordarmi le battute, non avere il costume giusto, non essere idoneo. Per fortuna non è mai successo».
Il giorno da rivivere?
«Quando Mediterraneo vinse l’Oscar. Eravamo in Messico a girare Puerto Escondido, regia sempre di Salvatores con parte di quel cast (io, Abatantuono, Ugo Conti...). Le riprese furono interrotte per una settimana per permettere a Gabriele di andare a Los Angeles. Così ci siamo presi una vacanza, abbiamo fatto un giro del Chiapas con un pulmino affittato, dormivamo in posti assurdi, fazende improbabili, amache all’aperto, isolati da tutto. Per la sera dell’Oscar ci concedemmo una città un po’ più sviluppata, un motel che avesse almeno la tv. Eravamo convinti di non vincere, profilo basso, ci sentivamo outsider, in gara c’era pure Lanterne rosse. Non credevamo davvero fosse possibile. Quando Stallone fece l’annuncio sul palco mi sembrò di essere in un fumetto, quella serata la sogno ancora adesso, un po’ per la sensazione un po’ per il posto in cui l’ho vissuta».
Ha visto generazioni di comici: chi per lei meritava di più? Chi è stato sottovalutato?
«Non parlerei di sottovalutati, ma c’è un teorema che non sbaglia: più un comico indovina un personaggio forte, più fa fatica a toglierselo di dosso. Vale per Della Noce con Oriano Ferrari, vale per Marco Marzocca e il suo filippino. O per Paolo Cevoli, un altro di cui posso dire le stesse cose che ho detto di Vanessa: il suo assessore Cangini è strepitoso. Quando mi chiamavano per le convention io volevo sempre lui. Mi ricordo una volta, era per una consolle, non so se Xbox o Playstation. Ci dissero: fate quello che volete, basta che non nominiate l’altra... Secondo lei? Tutta la serata a nominare l’altra».