la Repubblica, 17 ottobre 2022
Da "Il ritorno degli imperi. Come la guerra in Ucraina ha stravolto l’ordine globale" di Maurizio Molinari (Rizzoli)
Con l’invasione russa dell’Ucraina la frattura dell’ordine internazionale scaturito dalla fine della Guerra Fredda si fa brusca, e più chiaramente emergono i quattro grandi protagonisti sulla scena: Russia, Europa, Stati Uniti e Cina. Ognuno di loro ha interessi propri, valori radicati, un particolare sistema di governo; ognuno è portatore di una distinta visione del mondo e tende ad affermarla in maniera spiccatamente identitaria. Ognuno è anche il fulcro di un sistema di alleanze, differenti per peso e struttura ma tutte capaci di rafforzare le rispettive ambizioni globali. Si tratta non solo delle quattro maggiori potenze economiche del pianeta, ma anche di quelle che accentrano su di sé maggiori tecnologie, maggiore capacità di crescita, maggiore forza militare. E anche potenzialità ibride, che vanno dall’esercizio del soft power alla cybersicurezza. Il termine «impero» che usiamo per definirle viene dalla Storia e fotografa la volontà o la capacità da parte di un’entità di governo di estendere il proprio controllo – con metodi e forme differenti – in un’area geopolitica assai più vasta dei propri confini. Secondo questa descrizione base, ognuna di queste quattro potenze rientra in tale definizione, anche se in maniera assai peculiare. E sono proprio tali diversità a innescare fra questi giganti geopolitici una competizione globale su più fronti, perché combattuta con armi e strumenti sostanzialmente disomogenei. La Russia esprime la versione più tradizionale e ottocentesca dell’impero: si articola a partire da un leader autocrate, titolare di un potere assoluto sulla propria ristretta catena di comando, che ha sacrificato gran parte delle risorse nazionali alla costruzione di un imponente arsenale militare con l’intento di adoperarlo per estendere i propri confini e sottomettere le nazioni vicine. Ovvero, allontanare quanto più possibile dal territorio della madrepatria i Paesi aderenti alla Nato, riunificare alla Russia i territori abitati da minoranze russofone, impegnare contingenti di truppe speciali o mercenari per difendere i propri interessi strategici in Asia, Africa e America Latina, sviluppare gli strumenti di cyberattacco per poter minacciare l’avversario – l’Occidente in particolare – dall’interno, ricorrere al soft power – dalla musica ai media – per accattivarsi il grande pubblico, grazie a una narrazione che contrappone successo ed efficacia delle autocrazie alla decadenza delle democrazie – cui si imputa di coltivare una versione «molle» di società, basata sul rispetto dei diritti individuali. Gli strumenti a cui Putin ricorre per restituire alla Russia la dignità imperiale che aveva al tempo degli zar e durante l’esistenza dell’Urss sono però principalmente quelli tradizionali: interventi militari all’estero – in Georgia nel 2008, in Crimea e Donbass nel 2014, in Siria nel 2015, in Libia nel 2017, in Mali nel 2020, in Centrafrica nel 2021 – e la brusca repressione di ogni dissenso dentro i confini nazionali, imprigionando o avvelenando i maggiori dissidenti e impegnando le forze armate nella brutale repressione della Cecenia nel 2010. Senza contare gli interventi «di pace» in Paesi vicini in momenti di crisi, come in Armenia nel 2021 e in Kazakistan nel 2022. Il tutto accomunato da un forte collante religioso – l’intesa con la Chiesa ortodossa russa del patriarca Kirill di Mosca – e dalla costante ricerca di nuovi spazi, politici ed economici, grazie a un reticolo di alleanze commerciali: dalla Cis con gli ex Paesi Urss all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai con Cina e Asia Centrale, fino al sostegno politico e militare diretto a un pugno di despoti e dittatori – in Venezuela, a Cuba, in Iran, in Nord Corea – che gli consentono di godere di una vasta rete di appoggi logistici in più continenti, nonché fra gli scranni delle Nazioni Unite. Anche la Cina persegue la leadership globale, ma i mezzi a cui ricorre sono assai diversi: la priorità è l’affermazione sul fronte delle nuove tecnologie – a cominciare dall’intelligenza artificiale – e del controllo dei mercati. Per Pechino lo strumento privilegiato è la competizione economica più aggressiva, penetrante, capace di sbaragliare qualsiasi concorrente con la forza di prodotti meno cari e più avanzati. E con un ricorso massiccio alle finanze pubbliche per sostenere la penetrazione dei privati nelle regioni e nei territori considerati più lontani, ostili ma anche strategici per la realizzazione dell’ormai celebre “Belt and Road Initiative”. In tale cornice lo strumento militare serve a puntellare ed estendere una sfera d’influenza regionale nell’Estremo Oriente: dagli isolotti militarizzati nel Mar Cinese Meridionale agli stretti di Taiwan, dagli arcipelaghi del Pacifico ai legami privilegiati con Nord Corea e Pakistan – entrambe nazioni nucleari –, fino alla creazione di una «collana di perle» di basi navali nell’Oceano Indiano, a Gibuti, sulla costa orientale dell’Africa. Una catena che corre parallelamente al tracciato marittimo della Nuova Via della Seta, studiato personalmente da Xi per portare beni e servizi cinesi sui mercati dell’Europa Occidentale – i più ricchi del pianeta – per poter battere, sul terreno della concorrenza più agguerrita, i rivali statunitensi. La “Belt and Road Initiative” prevede anche un parallelo binario terrestre che attraversa l’Eurasia puntando a trasformare l’emisfero settentrionale con un reticolo di infrastrutture – ponti, strade, ferrovie – capace di superare qualsiasi ostacolo geografico per collegare Parigi-Berlino al cuore della Cina. La sfida cinese è quindi orientata alla conquista del mercato commerciale globale, attraverso una presenza prevalente sulle regioni limitrofe al tracciato, come l’Africa e il Medio Oriente. E anche qui il gigante asiatico si fa spazio con investimenti massicci, acquisizioni, finanziamento di infrastrutture logistiche e di telecomunicazione. Ogni Stato che in Europa sottoscrive l’adesione alla Nuova Via della Seta – dall’Ungheria alla Grecia fino al Montenegro – firma accordi scritti che lo trasformano de facto in un alleato – quasi un vassallo – di Pechino. Tra gli obiettivi c’è la creazione di un ponte logistico attraverso il Mediterraneo: da qui l’interesse per l’Italia, più volte manifestato guardando ai porti di Trieste, Venezia, Genova e Taranto, alla costante ricerca di «approdi sicuri» da trasformare in hub per poi accedere alle linee ferroviarie verso l’Europa Centrale. La strategia cinese, pertanto, può dirsi «imperiale» perché tende a imporsi in aree geografiche estese e molto distanti tra loro. Per l’Occidente significa trovarsi in una morsa: l’aggressione militare vecchio stampo della Russia e quella economico-commerciale della Cina popolare. Pechino non fa mistero delle proprie ambizioni globali, vede nella guerra in Ucraina un imprevisto che tuttavia può rivelarsi utile al raggiungimento dei propri scopi. Nel frattempo, ormai da decenni rafforza il proprio arsenale, convenzionale e non, per avanzare la richiesta alla comunità internazionale di essere «rispettata» come una «grande potenza», riconquistando il posto che le spetta sul palcoscenico globale. L’intento che accomuna Mosca e Pechino è strappare a Washington i primati guadagnati nel Novecento per porre fine al mondo unipolare esito della Guerra Fredda e sostituirlo con un ordine internazionale multipolare. A questa formidabile sfida gli Stati Uniti di Joe Biden, 46esimo presidente americano, rispondono con una strategia tesa a consolidare ed estendere le alleanze esistenti. Già protagonista della Guerra Fredda, espressione dell’establishment di Washington e arrivato alla Casa Bianca sconfiggendo il populista Donald Trump, Biden crede nella formula delle alleanze che ha garantito all’America la leadership globale del Novecento. E punta a rafforzarle: da un punto di vista politico ribadendo il legame di valori e interessi con la Comunità delle democrazie; sul fronte militare rafforzando il ruolo della Nato per arginare la minaccia russa nell’Est europeo e quella jihadista sul fronte mediterraneo; e sul piano strategico creando un reticolo di nuove intese nello scacchiere dell’Indo-Pacifico che legano, sulla sicurezza come sull’economia, le democrazie dell’Asia del Sud e dell’Estremo Oriente all’Alleanza atlantica. Il fine è costruire anche attorno alla Cina popolare quella rete di accordi, militari ed economici, che in Europa riescono a esercitare una «determinata deterrenza» nei confronti della Federazione russa. Ma non è tutto: Biden ritiene che rafforzare la Comunità delle democrazie significhi anche agire sul fronte interno, ovvero rispondere alla sfida delle proteste populiste varando efficaci riforme capaci di far fronte alle diseguaglianze economiche e alla corruzione politica, puntando al tempo stesso sullo sviluppo di nuove tecnologie per contrastare gli effetti del cambiamento climatico e più in generale a potenziare l’innovazione digitale in ogni settore della vita pubblica e privata. Per l’Unione Europea, ciò implica trovarsi al centro di una competizione formidabile perché la sfida globale fra Russia, Cina e Stati Uniti si svolge in misura determinante sul suo territorio, e ha in palio proprio le risorse europee. La Russia non può avere il suo nuovo impero senza rosicchiare territorio e frontiere all’Est europeo, così come la Cina non può costruire la sua Nuova Via della Seta senza attraversare il Mediterraneo, l’Eurasia e raggiungere le coste dell’Atlantico. Ma anche gli Stati Uniti non possono realizzare la Comunità delle democrazie, come anche la Nato globale, senza il cruciale contributo degli alleati del Vecchio Continente. Sta all’Unione Europea pertanto decidere come collocarsi, puntando a difendere i propri interessi ed estendere gli orizzonti politici. E nel farlo non può non prendere in considerazione l’ipotesi di diventare essa stessa il quarto grande attore globale del nuovo risiko fra gli imperi del XXI secolo. Con un Pil in grado di gareggiare con Usa e Cina, una capacità di sviluppo tecnologico e scientifico competitiva su ogni fronte, risorse militari superiori alla Russia e una potenzialità di aggregare coalizioni maggiore di Mosca, Washington e Pechino, Bruxelles può essere in grado di giocare una partita di primo piano. Ma per riuscirci deve portare a termine l’integrazione economico-finanziaria, militare ed energetica fra gli Stati, da cui dipende la possibilità di diventare una potenza planetaria, aggregando quelle nazioni candidate che vogliono aderire al progetto europeo e, più in generale, trovando risposte efficaci a quella moltitudine di capitali su più continenti che guardano verso Bruxelles in cerca di prosperità, sicurezza e sviluppo.