Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 14 Venerdì calendario

Intervista a Morten Harket - su "True North" degli A-ha



"Lui è Morten, e neanche gli altri stanno tanto bene". Maurizio Seymandi gelava con una battutaccia i telespettatori di Superclassifica Show all’inizio dell’intervista con gli a-ha. Era il febbraio 1988, il trio era reduce dal Festival di Sanremo in un’annata in cui c’erano Paul McCartney, George Harrison, Ben E. King, Bon Jovi, Toto, Bryan Ferry e stava per partire per quello che sarebbe rimasto l’unico tour italiano della carriera. L’edonismo pop degli anni Ottanta volgeva verso nuove trasformazioni. Che avrebbero spazzato via anche programmi tv che sull’idolatria dei giovani facevano leva. Come appunto Superclassifica Show. "Di Sanremo quello che ricordo io è che incontrammo Robbie Robertson. Erano anni particolari quelli, di transizione...", racconta ora con fare ascetico Morten Harket, il cantante degli a-ha, 63 anni portati ottimamente. Anni particolari sì: i tre norvegesi non erano più teen idol rincorsi dalle ragazzine di mezzo mondo e non erano ancora classici del pop. Avevano lasciato Londra dove si erano trasferiti poco più che ventenni per fare il salto ed erano tornati nella loro amata Norvegia, dove avrebbero continuato a pubblicare album. L’undicesimo, True North, arriva il 21 ottobre. Sono quarant’anni ormai da quando iniziarono a lavorare insieme - più di quanto siano durati i matrimoni di Harket, cinque figli da tre mogli diverse. Il successo arrivò clamoroso subito, con il loro primo singolo, Take on me, e un video entrato nella storia di Mtv: Harket era un po’ umano un po’ cartone animato in bianco e nero, sbatteva sui muri per cercare di liberarsi della sua natura cartoon e viveva una tormentata storia d’amore con una ragazza in carne e ossa. Diventò uno dei singoli di maggior successo della musica tutta: un miliardo e mezzo di visualizzazioni su YouTube, un miliardo e quasi 200 milioni di ascolti su Spotify. E parliamo di musica del ventesimo secolo. Quando era tutto diverso.

Com’erano quindi gli anni Ottanta?
"Un’invenzione dei media. Lo so bene, c’ero. Ci sono stato tutto il tempo. Parlando di noi i giornali si concentravano solo su alcuni aspetti. Eravamo diventati un fenomeno grazie al video di Take on me e ci promuovevano soprattutto sulle riviste per teenager. Ma già nel 1987 le cose erano cambiate, avevamo un seguito vario, non solo di giovanissimi. Eppure c’è voluto tantissimo perché cambiasse anche il modo in cui eravamo percepiti dai media".

E perché secondo lei?
"Perché scelgono in che modo vogliono raccontare una storia, come vogliono vendere un prodotto. E lo fanno in base a quello che credono chiedano i loro lettori. Quindi avranno sempre un approccio legato a fasce d’età. E noi eravamo in questo ingranaggio. Così alla fine sembrava che fossimo noi a voler essere visti così, ma era falso".

Mette in guardia sua figlia Tomine che sta tentando la strada del pop?
"Le do consigli quando me li chiede, ma deve cercare la sua strada. Nessuno può darti una carriera, io posso solo essere di supporto nel percorso".

Perché avete deciso di registrare True North a Bodø, a Nord del circolo polare artico?
"Un giorno Magne mi ha mandato per email un nuovo brano che aveva scritto e mi ha chiesto se valeva la pena provare a cantarla. Era molto bella. E ha continuato a comporre. È sua l’idea del Nord, il concept dell’album. Poi si è unito Paul con altre canzoni. Alla fine è un disco poco tipico per noi, ma in fondo siamo una band atipica".

Il documentario del 2021 A-ha: The Movie mostra le dinamiche interne al gruppo, piene di tensioni. È difficile essere in mezzo a due autori?
"Ma no. Anch’io ho composto canzoni in passato per la band, ma ho capito che è meglio tenerle fuori dal progetto e dedicarle ai miei album solisti invece di infilarle a forza tra loro due".

Per questo vi siete separati due volte per poi tornare insieme?
"No, la cosa davvero difficile da gestire è: come si divide in tre? Come fai a valutare il diverso contributo di tre persone? Il modo migliore è sempre dividere equamente?".

Eppure sono quarant’anni insieme.
"Vero. È incredibile. E abbiamo ancora tanto da imparare. È una vita intera. Forse è per questo che non ci vediamo tanto quando non lavoriamo. Proprio perché tanto ci vediamo comunque molto spesso".

Tutto iniziò con Take on me. Brano e video iconici.
"Non immaginavo che il video sarebbe diventato tanto famoso. Ma avrei scommesso tutto sulla canzone. Il video è stato ideato da altri e poi ce lo hanno proposto. E ne abbiamo parlato tutti insieme, perché non era tanto scontato farlo a cartoni animati. Ma il brano ormai vive di vita propria, non è più nostro: è della gente".

Non avete collaborato quasi con nessuno in quarant’anni. Neanche con Chris Martin dei Coldplay che qualche anno fa in un suo endorsement pubblico riportò in alto le vostre quotazioni.
"Le collaborazioni devono nascere spontaneamente. Altrimenti vuol dire che lo fai solo per attirare attenzione. E noi non lo abbiamo mai fatto".

Una collaborazione in effetti ci fu, e non andò tanto bene: quella con John Barry, l’autore delle musiche dei film di James Bond. Il brano Living Daylights è stato un grande successo, ma l’esperienza poco felice.
"Diciamo che c’è stato uno scontro di personalità. Non è che volessimo due versioni diverse del brano (quella voluta da Barry finì nel film del 1987 Zona pericolo con Timothy Dalton, la band pubblicò la propria versione nell’album Stay on These Roads, ndr) ma la verità è che il problema erano le sue maniere poco gentili".

Come molti suoi colleghi si è prestato anche lei a lavorare come giudice per The Voice in Norvegia e ha partecipato in Inghilterra a Il cantante mascherato (il personaggio era "Il vichingo"). Come è andata?
"Non mi sono divertito per niente. Ma allo stesso tempo è stato piacevole. Sapevo che sarebbe stata un’esperienza di merda, per quello ho voluto farla. Perché mi sembrava qualcosa da provare. Mi è piaciuto lavorare con il team del Cantante mascherato. Cioè, in realtà dovevamo fare tutto in segreto, quindi non è che incontrassi poi tanta gente".

Passa per essere un uomo molto religioso.
"Sì, ma ci vorrebbe molto tempo per spiegarlo. Potrei parlarne a lungo".

Va bene.
"Purtroppo l’intervista è finita, ne parleremo un’altra volta. Anzi, parleremo solo di questo".

Ma alla fine, quelle note altissime di Take on me è difficile raggiungerle alla sua età?
"No, nessun problema. Per ora, almeno".