La Stampa, 16 ottobre 2022
I turisti dell’ aula bunker
La gabbia numero 16 adesso è vuota, di un vuoto irreale, come la scenografia di un film senza attori. «Vi auguro la pace», scandì dietro queste sbarre Michele Greco, il papa della mafia rivolto ai giudici, un’intimidazione fatta con il sorriso. «Grazie grazie», rispose asciutto il presidente del Tribunale, Alfonso Giordano, l’unico magistrato che aveva accettato di dirigere la corte d’Assise del primo maxiprocesso alla mafia, lo spartiacque nella lotta dello Stato a Cosa Nostra, la grande vittoria (purtroppo non definitiva) di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Giordano è morto l’anno scorso, ma gli altri protagonisti di quella stagione scolpita nella storia d’Italia – magistrati e giornalisti – sfilano oggi dentro l’aula gigantesca, aperta eccezionalmente al pubblico nell’ambito del Festival «Le Vie dei Tesori» grazie alla volontà del Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo.
Nel trentennale delle stragi del 1992, infatti, anche questo tempio della memoria è entrato a far parte dei 150 luoghi aperti a Palermo dal Festival insieme con palazzi nobiliari, giardini, chiese, terrazze, oratori, rifugi antiaerei. Luoghi che sono tutti custodi di una memoria collettiva, dove il racconto dei giovani esperti (archeologi, storici dell’arte, antropologi, architetti) si intreccia con quello dei visitatori. Una manifestazione che semina conoscenza e cultura fuori dai salotti e che ogni anno, soltanto nel capoluogo siciliano, accoglie oltre 200 mila persone in pochi giorni.
Un museo diffuso di cui in questa edizione – tra mosaici arabo-normanni, putti barocchi, affreschi settecenteschi, decori Liberty – è entrata a far parte l’aula bunker, pezzo fondativo della storia di Palermo e d’Italia. «Un modo di valorizzare nella collettività la dimensione storica di questo luogo-simbolo», dice il presidente Balsamo.
Cinquecento persone al giorno, divise in sette turni, dalle 9 alle 13 ogni sabato e domenica gremiscono l’ «astronave» costruita in nove mesi tra il 1985 e il 1986 a fianco del carcere dell’Ucciardone per resistere pure ai missili. I visitatori entrano lungo il tunnel, guardano l’emiciclo con i banchi degli avvocati davanti alle gabbie, le tribune in alto dei giornalisti, fanno domande. Al termine della manifestazione – che si chiuderà domenica 30 con Piero Grasso, l’ex presidente del Senato che al maxiprocesso era giudice a latere – saranno oltre 5 mila ad avere visitato l’aula.
«Mi ricordo come se fosse adesso le gabbie piene degli imputati e quei nove lunghi giorni che mi ci vollero per enunciare tutte le richieste di condanna», ha raccontato Giuseppe Ayala, che di quel processo fu pubblico ministero, quasi commosso nel sedersi di nuovo al suo banco quasi quarant’anni dopo. Un processo da Guinness, il più grande della storia. Nessuna aula di tribunale esistente avrebbe potuto ospitare un dibattimento con 475 imputati, 900 tra testimoni e parti lese, seicento giornalisti da tutto il mondo, testimoni e avvocati. Furono 349 le udienze che si svilupparono in 22 mesi, la camera di consiglio durò 35 giorni, la lettura della sentenza richiese un’ora e mezza. Il processo iniziò il 10 febbraio 1986 e si concluse il 16 dicembre 1987 con 246 condanne di cui 19 ergastoli: in totale 2.665 anni di carcere.
Lo Stato che vinceva sulla mafia, che acclarava Cosa Nostra come una struttura organizzata e verticistica, i boss a sfilare uno dopo l’altro davanti alle telecamere della Rai che – ha ricordato Salvatore Cusimano, il primo che qualche anno dopo sarebbe accorso nell’autostrada sventrata di Capaci con le telecamere del Tg1 – registrò integralmente tutte le udienze, oltre 1.400 ore che si dipanano come un film. Con un protagonista su tutti, Tommaso Buscetta, il primo grande pentito che raccontava i segreti di Cosa Nostra. Parole pesate, lente, solenni, che non si scomposero neanche durante il confronto drammatico con Pippo Calò. E poi gli insulti dalle gabbie al pentito Salvatore Contorno, l’interrogatorio di Michele Greco, lo sguardo di Luciano Liggio, nella gabbia numero 15, quella che sta di fronte allo scranno del presidente, episodi passati in rassegna dai cronisti dell’epoca che conducono queste visite guidate: Franco Nicastro, Enzo Mignosi, Felice Cavallaro, Giuseppe Lo Bianco, Daniele Billitteri, Marcello Barbaro.
Una macchina, quella del maxiprocesso, governata anche grazie a figure che agivano dietro le quinte di «quella grande drammatizzazione tutta siciliana», per dirla con Peppino Di Lorenzo, il cameraman che seguì tutte le udienze. C’era Vincenzo Mineo, il direttore della sicurezza, l’uomo che aveva le chiavi di ogni stanza, che conosceva ogni metro dell’aula, l’uomo che il giorno prima dell’avvio delle udienze insieme con gli addetti alla Cancelleria fece le tre di notte per completare il trasferimento degli atti: 600 mila fogli che presto avrebbero superato il milione. Lui è scomparso l’anno scorso, ma al suo posto è arrivata la moglie, Ester Aiello, a raccontare la vita di suo marito durante quei giorni. «Pensavo che non sarei riuscita a parlare per l’emozione – dice tra un turno e l’altro di visite – e invece non riesco a fermarmi. Mi commuove vedere tante persone interessate, attente ad ascoltare, e poi venire tutte a salutarmi, uno per uno, piccoli, grandi, bambini, ragazzi. Un’iniziativa importantissima, perché si dà l’opportunità di conoscere una pagina della storia che non può e non deve essere dimenticata e quella del racconto è la via maestra perché questa memoria resti viva e non sia confinata soltanto in un solenne episodico momento».
A raccontare c’è anche Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici, stretto collaboratore di Falcone e Borsellino, inventore dell’informatizzazione del maxiprocesso. «Grazie Giovanni, memoria storica di quegli anni tragici che sancirono l’inizio del riscatto di un popolo», gli ha scritto su Facebook un visitatore.
Falcone e Borsellino sembra di vederli. Li vedi trasferiti da un giorno all’altro all’Asinara, per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxiprocesso lontano dal rischio di attentati. Li vedi raggianti alla lettura della sentenza di primo grado, il 16 dicembre 1987. Li vedi vittoriosi all’indomani della sentenza di Cassazione, il 30 gennaio 1992, seppure dopo amarezze, veleni, prese di distanza, tradimenti (per Falcone pure il fallito attentato dell’Addaura nel 1989). Li vedi morti entrambi, qualche mese dopo, l’uno a maggio, l’altro a luglio del 1992.
«La mafia è sconfitta?», chiede uno dei visitatori a Leonardo Guarnotta, componente del pool antimafia con Falcone e Borsellino: «La sfida – dice – oggi è tutta nella famiglia e nella scuola. Ma vedere qui tanti ragazzi mi riempie il cuore di gioia e di fiducia». —