Corriere della Sera, 16 ottobre 2022
Un viaggio nel mondo di Beppe Viola
Diceva: «Il golf? Per me è un maglione». Diceva: «Bisogna leggere per scrivere come parli». Diceva: «Non si capisce perché un giornalista chiede lo sconto per comprare il paltò». Mandava indietro i regali di Natale. Era integro e libero. Era malinconico e autolesionista. Era Beppe Viola.
Adesso che sono passati 40 anni dalla morte, 17 ottobre 1982, età 42, ictus dopo un Inter-Napoli a San Siro, la memoria si è addolcita, confina il dolore. Emicranie a furia di tirar tardi, insalata di pollo «bella unta», sigaretta tra indice e pollice, la musica dell’Olivetti, tac, tac, tac, mischiata ai suoni del biliardo. Milano, quella là. Un’energia potentissima per tenere assieme Lucio Fontana e «il Bistecca», portinaio di giorno, battutista formidabile la sera; Enzo Jannacci e i clanda, allibratori specializzati nel darti una storta spacciata per dritta, Derby Club, Bar Gattullo, Ippodromo Trotto, dove capivi subito che i danée erano belli andati.
Per imparare a stare al mondo bastava andargli dietro, dopo le ore 22 possibilmente. Per imparare el mestè bastava osservare il rigore applicato al capoverso, un’etica senza concessioni. Multa di lire 5 mila per ogni scheggia di retorica. Le prime tre righe per agganciare il lettore, le ultime come note di un gran finale. Era un eversore, in mezzo ad altri. Linguaggio e design, arte, canzoni, comicità. Con dentro, sempre, la percezione del marciapiede, della fabbrica, le straordinarie stimolazioni lessicali offerte dall’immigrazione, la voglia di trovare un modo nuovo perché erano nuovi tic e desideri, case e aspirazioni. Le radici infilate in atmosfere da lungo dopoguerra; gli ultimi presi su, por sacrament, portatori, come erano, di un bisogno ma anche di saggezza, di un cinismo comico e autoironico. Surrealisti tutti visto che «…la realtà è un uccello che non ha memoria, devi immaginare da che parte va». Giorgio Gaber, 1976.
Lavorava alla Rai con orgoglio e disincanto. Eppure, proprio in quella Rai ebbe la libertà di esprimersi, di mostrare il derby dell’anno precedente nel giorno in cui il derby era stato una noia, di intervistare Gianni Rivera sul tram. Aveva fondato una agenzia per condividere un senso compiuto lavorando sul racconto, sulla scrittura, sui contenuti preziosi dello sport. È questo soprattutto che resta, dentro una città, un Paese che ha perso ogni rapporto con quel passato, fatto di concretezze, di anticonformismo. Umorismo e riflessione per andar dentro una storia, evitando di metterla giù dura. Prendere in giro se stessi per prendere in giro l’altro, uno che sgobba, si fa un mazzo così. Testi per la tv, per i giornali, per il cinema, le canzoni. Con Enzo Jannacci complice, un mix ispiratore composto da balordi, intellettuali, saltimbanchi, jazzisti, pugliesi-milanisti. Si ma prima, dalla mattina alle 22, come detto, provare a fare meglio, please. Un’idea da scovare, un progetto da mettere giù, una visione laterale da applicare. La spesa in rosticceria, vino per far ridere il gozzo. «Ma com’è che le cose più buone fanno tutte male?». Forse spese troppo, di se stesso di sicuro. Lo pensava Franca, sua moglie, una santa. Detta «Cianci» da Cianciulli, quella che scioglieva le vittime nella soda caustica, per dire, appunto, del cinismo e dell’ironia in circolazione familiare. Lo pensano le sue figlie, Renata, Marina, Anna, Serena rovistando in un baule di ricordi grande così, riempito da chi c’era e c’è ancora. Tipi come il Giuliano. Il giorno dopo la morte di Beppe radunò moglie e figlie, le fece sedere sul divano. Disse, in dialetto: «Se qualcuno vi disturba o infanga la memoria del Viola voi alzate le mani e dite: alt, non è più di mia competenza. Mi avvisate e mi el mazi». Mai stato avvisato. Dai, Beppe, solo roba buona. Cià, mettiamo su la moka, chiacchieriamo un altro po’.