Corriere della Sera, 16 ottobre 2022
Intervista a Isabella Ferrari
ROMA Isabella Ferrari è Nora, la moglie di Filippo Timi, un gerarca fascista ormai agli sgoccioli. Nora è una diva del cinema degli anni Trenta, considerata sul viale del tramonto. Alla Festa del cinema, suo marito «vero», Renato De Maria, è il regista di Rapiniamo il Duce (dal 26 su Netflix). Una banda scalcagnata, capeggiata da Pietro Castellitto e Matilda De Angelis, a Milano vuole mettere le mani sul tesoro di Mussolini: il famoso oro di Dongo.
Chi è Nora?
«L’ho amata tanto, avevo voglia di fare una canaglia, una donna forte, piena di capricci, carismatica, nasconde un desiderio di riscatto mentre il matrimonio va alla deriva. Si ribella e lo fa in maniera feroce. Però c’è anche dell’ironia. Il costume è il 50 percento di Nora: il cappello a punta, i visoni stretti, le cose maculate. Un po’ Crudelia De Mon».
Ha girato per suo marito.
«Se siamo sul set insieme, ognuno ha la sua stanza d’albergo. Renato mi ha fatto avvicinare con dei riferimenti importanti per poi dirmi, sii te stessa, sii sfrontata, sii spudorata, sii affascinante. Mi ha chiesto di fare un provino con due scene, una è quella in cui Timi me ne dice di tutti i colori. In questo caso il ruolo non l’aveva pensato per me».
Si potranno fare film sul Duce nell’Italia di Giorgia Meloni, cosa si aspetta?
«Confido nella sua intelligenza politica. Intanto questo è un film pensato tre anni fa e non è politico ma una commedia, un film d’amore, di Netflix che va in 190 Paesi. Io penso che non avremo estremismi di censura, non credo che torneremo indietro su temi come l’aborto, le minoranze e altre conquiste civili».
Sulla solidarietà alle donne iraniane uccise, le attrici francesi sono state più coraggiose di quelle italiane.
«Il taglio dei capelli di Isabelle Huppert, Cotillard, Adjani, Béjo… Ci ho pensato ed è vero, loro si sono mobilitate, da noi c’è stata un po’ di timidezza, è vero che sto girando un film, quello di Daniele Luchetti con Elio Germano, ma potevamo inventarci qualcosa».
Bérénice Bejo dice che in Francia le attrici non hanno la dittatura del corpo.
«Ricordo quando a Londra andavo a King’s Road con abiti eccentrici, poi tornavo a Roma e li dismettevo. Siamo italiani, abbiamo un senso estetico diverso, siamo belli anche così. L’Italia è un Paese meraviglioso».
Qui lei è una diva del passato: come vive il tempo che passa?
«Ho lavorato sulla solitudine di Nora. Io... a volte mi disturba che non riesca a dire che sto peggio ora. Non ho angoscia né fastidio, ho sviluppato l’umorismo, non mi guardo nemmeno allo specchio, mi sento libera, anche nello sguardo degli uomini. Le attrici giovani mi vedono come un miracolo, ero esplosa quando avevo 17 anni…».
Una parentesi di crisi?
«Ho scavallato un periodo di fermo, verso i 40 anni. Galleggiavo nel limbo, non potevo più raccontare la seduzione e nel cinema non c’erano ruoli per la mia età. Con le piattaforme c’è una diversità di contenuti. Io sono una che va in sala, purtroppo la crisi temo sia irreversibile. A me succede anche di non vedere l’ora di seguire un film sul computer, sdraiata a casa».
Torna alla Festa dopo un’esperienza tumultuosa.
«E la chiamano estate, vinsi sia io come attrice che il regista Paolo Franchi. Con i giornalisti fu come stare nella fossa dei leoni; lì mi ero messa a nudo nel vero senso della parola, ci fu un rifiuto a vedermi così. Ricordo i fischi e però io ero orgogliosa di quel premio. Lo dedicai ai miei figli, alla mia curiosità, a progetti che possono sembrare pericolosi. Però è stato crudele come può essere crudele il cinema, che amo così tanto».