Corriere della Sera, 16 ottobre 2022
Intervista a Bruno Vespa
Sessant’anni di Rai Bruno Vespa li conta dal primo settembre 1962: «Avevo 18 anni: il primo lavoro, durato sei anni, fu trasmettere due volte al giorno alla sede di Pescara le notizie da L’Aquila, dove c’era anche una grande società dei concerti. Allora, con un vecchio Nagra a manovella, registravo anche interviste per la radio nazionale con Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Svijatoslav Richter, il giovane e promettente Maurizio Pollini... Ho fatto l’abusivo finché, nel 1968, ci fu il concorso, lo vinsi e, nel ‘69, entrai al Tg».
Aveva cominciato a 16 anni come corrispondente del Tempo dell’Aquila, come arriva il sacro fuoco del giornalismo?
«Al Circolo del tennis, avevo 15 anni, un pregevole latinista mi propose di collaborare a un giornale dialettale. Non sapevo scrivere in aquilano e composi noiosissimi articoli sui concittadini che avevano dato i nomi alle strade. L’anno dopo, cominciai col Tempo. L’emozione del primo stipendio fu enorme: cinquemila lire».
Quante erano cinquemila lire nel 1960?
«Per me, un miliardo. Ricordo ancora il cassiere del Banco di Napoli che contava i biglietti da mille: vestito, come usava, da lord, col panciotto e i gemelli d’oro. Quell’anno, c’erano le Olimpiadi a Roma e, all’Aquila, si disputavano gare ultraminori, così iniziai a collaborare gratis con Radio Rai. Ogni mezz’ora, dovevo raggiungere un enorme telefono nero, chiamare quello che sarebbe diventato Tutto il calcio minuto per minuto e dire: Ghana 1-Costa Rica 0».
La direzione del Tgl arrivò nel 1990. Momenti topici della carriera?
«Il battesimo del fuoco già pochi mesi dopo l’assunzione. Il 12 dicembre ‘69, ero a Palermo per la strage mafiosa di Viale Lazio, quando dal Tg mi dissero: torna, hanno messo una bomba a Milano a Piazza Fontana. Da lì, annunciai l’arresto di Pietro Valpreda definendolo “il colpevole”, cosa che giustamente mi è stata rinfacciata per decenni. Però, se lei sui giornali dell’epoca trova un “presunto”, le mando un fascio di rose».
E perché se la presero tanto solo con lei?
«In tutti questi anni, se la sono presa con me per le ragioni più disparate. Lì, comunque, poco prima della diretta, ebbi la notizia dell’arresto dal direttore Villy De Luca, andai dal questore Giuseppe Parlato, che si rincantucciò sotto la scrivania, e dissi con l’arroganza di chi ha 25 anni: o adesso o mai più. Mi rispose: mi faccia parlare col ministro. Uscì e anche lui disse: abbiamo arrestato il colpevole. Mi affidarono anche la politica, fatta senza leggere appunti per renderla più discorsiva. Però, ero piuttosto fumantino e, fino al ‘76, mi fu vietato di avvicinarmi alla Dc per paura di grane».
Proprio lei, che fece scalpore ammettendo che la Dc era il suo editore di riferimento?
«Avevo detto che lo era della prima rete, non era un mistero... Il Psi lo era della seconda e il Pci della terza. lo ero la persona con più titoli per fare il direttore del Tgl, ma se Arnaldo Forlani avesse detto “Vespa no”, non lo sarei diventato. Tenga conto, però, che non ho mai avuto un colloquio privato con Forlani, né la tessera Dc né ho mai partecipato a una riunione politica».
Dunque, questo carattere «fumantino»?
«Nel ‘72, Giovanni Malagodi è al governo con Giulio Andreotti e io vado al congresso del Pli. Lui chiede di non inquadrare le minoranze e io: appena mi assume al partito, ne riparliamo. Ovviamente, detti alle minoranze uno spazio elevatissimo. Poi diventai quirinalista: m’impose Biagio Agnes. Seguivo i viaggi di Giovanni Leone, al cui staff stavo sullo stomaco e, onestamente, credo che avessero ragione: volevano Claudio Angelini, bravissimo giornalista, che era loro amico. Però, siccome i rapporti fra il segretario di Leone, Nino Valentino, e Agnes erano pessimi, Agnes, per fargli dispetto, mise me. Un giorno, tornando dalla Val d’Aosta, trovo un telegramma rosa di Stato. Finalmente, penso, un ringraziamento. Invece, era un cazziatone micidiale di Valentino. Diceva che il presidente se l’era presa perché avevo tagliato un intervento del governatore della Valle d’Aosta. Mi arrabbio come una scimmia e gli scrivo una lettera di questo tenore: tu fai il tuo mestiere, io faccio il mio. Ci fu un chiarimento al Quirinale. Leone non sapeva niente di questa storia».
Altre reazioni fumantine?
«Mariano Rumor, ministro degli Esteri: torna da un viaggio e il suo portavoce mi dà un foglio con le domande. Dissi no, ma alla fine, lessi le domande fuori campo, tornai alla Rai, le tolsi, unii le risposte e uscì una cosa totalmente priva di senso. Rumor se ne scusò moltissimo. Dal 1976, fu il direttore Emilio Rossi ad affidarmi la Dc. Il lancio vero me lo diede l’omicidio di Aldo Moro, purtroppo».
Annunciò lei sia il sequestro che il ritrovamento del corpo.
«Non ci volevo credere: era impensabile che qualcuno avesse fatto violenza a quell’uomo intangibile e l’avesse ucciso. Rimasi in onda dalle 9,30 del mattino alle due di notte. Anche il Pci ci riconobbe il merito di aver tenuto insieme l’Italia. Ugo La Malfa e Giorgio Almirante volevano la pena di morte per i terroristi, ma demmo la sensazione che il Paese tenesse e invece, purtroppo, al vertice, non teneva affatto».
Chi le aveva dato la linea editoriale?
«Nessuno. Ero solo in studio. Mi venne spontanea, mi presi una responsabilità enorme, poi, condivisa col direttore».
Negli anni di piombo, ha mai temuto per la sua incolumità?
«Non l’ho mai raccontato, ma ci fu un episodio negli anni ‘80... Tornavo a casa, pioveva e lasciai l’auto al portiere per portarla in garage. Molto tempo dopo, lui mi confessò d’aver visto due uomini armati, uno aveva detto: non è lui. Il padreterno mi ha messo mano sulla spalla».
Chi c’è fra i suoi incontri memorabili?
«Gianni Agnelli, incontrato una volta all’anno per vent’anni. Telefonavo: verrei a Torino il tal giorno, se è libero. Andavo e mi faceva mille domande: politica, giustizia, terrorismo, Mani Pulite... Nell’80, dopo la marcia dei 40 mila, mi diede un’intervista nonostante i suoi fossero contrari. Il suo attacco a Enrico Berlinguer fu memorabile. Quando lasciò la presidenza a Cesare Romiti, per la prima volta, sembrò subire le domande. E dovetti fare lo slalom per ignorare il tema successione: il figlio Edoardo era ancora vivo, lui era innamorato del nipote Giovannino».
Fra le sue interviste, Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo.
«Il governo non voleva che la facessi e tentò di non mandarla in onda. Fu un’intervista molto dura, eravamo due Paesi virtualmente in guerra e io subii il grandissimo fascino di Saddam».
Papa Wojtyla le telefonò in diretta nel 1998.
«Non se l’aspettava neanche Navarro Valls che era in studio con me. Avevo conosciuto Wojtyla a Cracovia nel 1977. Lamentava che il regime gli facesse mancare perfino la carta per stampare i giornali cattolici. Non ho mai visto una messa come quella che vidi lì. Ho ripensato a quella concentrazione devota facendo la diretta da Leopoli il Venerdì santo scorso: è stato così che ho capito che gli ucraini non si arrenderanno mai».
Mentre Wojtyla le parlava al telefono, lei sembrò commosso.
«È il mio papa. Nel mio studio, alle mie spalle, ho il suo ritratto. A Cracovia, gli avevo detto: non sarebbe ora di avere un papa polacco? Undici mesi dopo ne annunciavo l’elezione...».
Come arriva Porta a Porta?
«Nel ‘95 avevo lasciato la direzione del Tgl senza chiedere e trattare nulla: un idiota assoluto. Una sera, vedo lo spot di una seconda serata di Carmen Lasorella in onda dal lunedì al venerdì. Vado dalla presidente Letizia Moratti e le dico: vuole che me ne vada? Diede tre serate a Carmen e due a me. Venivamo da Samarcanda di Michele Santoro e “vi piace che hanno ammazzato Lima?”. La politica narrata in modo educato era impensabile, ma funzionò».
Mandò in onda Massimo D’Alema che preparava il risotto. Oggi, i politici sono tutti su Instagram fra pane e salame, pizza: lei, allora, che aveva intuito?
«Che erano finiti i tempi del pudore di Berlinguer. Vidi questo stacco fra Prima e Seconda Repubblica che andava spiegato alla gente. Cominciammo a scavare nelle abitudini dei politici, a intervistare i loro compagni di scuola».
I famosi plastici come le vennero in mente?
«Da sempre, i giornali li facevano in due dimensioni. E, anni prima, li aveva fatti in 3D Corrado Augias senza scandalo».
Giulio Andreotti ribattezzò il programma la Terza Camera del Parlamento.
«Diceva: se dico una cosa in Senato, non la sa nessuno, se la dico da te, la sanno tutti».
Lei da che infanzia e famiglia viene?
«Normale, con una mamma bravissima maestra elementare e un padre rappresentante di commercio. Non mi è mai mancato niente e ho sempre frequentato persone più brave di me, per cui, non ho mai provato l’invidia».
Come conosce sua moglie Augusta lannini?
«Comuni amicizie aquilane maturate a Roma, nel ‘71. Si è insinuata nella mia vita mettendo in ordine i miei ritagli di giornale. Discutiamo tutti i giorni, abbiamo caratteri conflittuali, ma nessuno dei due riuscirebbe a fare meno dell’altro».
Chi dà la linea in casa?
«Lei. E anche nella masseria in Puglia».
A proposito di Puglia, come si vincono Tre Bicchieri col vino, facendo un altro mestiere?
«Scegliendo un bravo enologo come Riccardo Cotarella».
È contento che il più grande dei suoi due figli, Federico, faccia il giornalista?
«Mi spiace che per lui ci sia un tetto di cristallo. Temo sia vero ciò che ha scritto Maurizio Costanzo: usando uno pseudonimo, lavorerebbe di più. Eppure, in Rai, i “figli di” non mancano».
Proprio Federico, ha raccontato che, la sera, davanti alla tv, «le fa i grattini sulla pelata perché anche lei ha bisogno di affetto».
«Nessuno sa che sono romanticissimo, affettuoso e, che, ci mancherebbe altro, anch’io ho bisogno di affetto».