il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2022
Bailey racconta Roth
Si possono compendiare 85 anni di vita in mille pagine? Ci ha provato Blake Bailey e l’esito è sbalorditivo per il ritmo affabulatorio con il quale dipana una mole impressionante di dettagli. A leggere Philip Roth. La biografia, in libreria per Einaudi, si ha la sensazione di tenere in pugno tutti i segreti del grande autore americano. Se Cynthia Ozick, nell’abbracciare i suoi 31 libri in 55 anni di carriera, ha elevato Roth a “manifestazione divina”, a Stoccolma hanno sempre tenuto lo sguardo basso sulle miserie terrene.
Eterno candidato al Nobel, Roth è morto nel 2018 senza questo alloro definitivo in nome di un “reato” di misoginia da cui ha sempre faticato a discolparsi. Forse per la sua disinvoltura nel portarsi a letto le donne, prostitute comprese. Due i matrimoni, sempre scanditi da tradimenti. Della prima moglie, morta in un incidente d’auto, se ne rintraccia una eco in Quando lei era buona. Della seconda, l’attrice Claire Bloom (coprotagonista con Chaplin di Luci della ribalta) è rimasto lo strascico di un suo memoir in cui descrive Roth alla stregua di “un manipolatore crudele”. Le sue scorribande di sciupafemmine contemplano flirt più o meno consumati con celebrità come Jackie Kennedy o Ava Gardner. A condire una reputazione già zoppicante pure l’onta di una vena antisemita, additato come “un ebreo che odia gli ebrei”. Forse per la sua libertà di non rappresentarsi come una “alienata, ipersensibile vittima”. Una vita dissipata sotto la tirannia della scrittura e del sesso, dell’ebraismo e del “genio comico”, che ha i suoi estremi in Lamento di Portnoy del 1969 e ne Il teatro di Sabbath del 1995. Il primo si avvita sull’istrionismo di un adolescente ebreo che brama “ingozzarsi di passera” e si masturba con un pezzo di fegato: “Ho chiavato la cena della mia famiglia”. Il secondo su un satiro di mezza età (erotomane intento a eiaculare sulla tomba di una sua amante) che rivendica le sue oscenità senza sensi di colpa. Roth non a caso ha dichiarato: “Ho scelto di fare letteratura con i miei vizi”.
Nato nel 1933, figlio di immigrati galiziani, trascorre infanzia e adolescenza a Newark, nel New Jersey, coltivando le passioni del baseball e della lettura. Dopo la laurea, durante il master di letteratura inglese a Chicago, affina la sua vocazione e comincia a pubblicare racconti imitando lo stile di Salinger. Fatale l’incontro con il suo maestro riconosciuto, il futuro Nobel Saul Bellow. Peraltro degni di nota i sodalizi con i suoi colleghi, dalle partite di poker con l’amico-rivale Updike alle conversazioni a Praga con l’allora dissidente Kundera. Si mantiene per anni come docente nelle università di Iowa e a Princeton. L’esordio è nel 1959 con il libro di racconti Goodbye Columbus, definito “un Grande Gatsby ebraico”. Due romanzi ancora prima del boom di Portnoy e poi una lunga traversata nel deserto come autore poco più che rispettabile. Dal surrealismo kafkiano del Seno (un professore che si trasforma in una mammella gigante) alla virtuosità comica della serie di Zuckerman (scrittore, alter ego dello stesso Roth, protagonista, tra gli altri, di La controvita del 1986). Roth diventa “un classico in vita” nella sua maturità, a metà degli anni 90 quando, in virtù di una folgorazione creativa, infila i capolavori della cosiddetta “Trilogia”: Pastorale americana, con una figlia terrorista contro la guerra del Vietnam; Ho sposato un comunista, sulla persecuzione maccartista; La macchia umana, sul puritanesimo che annienta un professore accusato di razzismo. Revisore fanatico – fino a quattro, cinque stesure per ogni romanzo – negli ultimi anni, dilaniato dal mal di schiena, era solito scrivere in piedi. Licenzia dunque romanzi brevi, tra cui Nemesi del 2010, su un’epidemia di poliomielite negli anni 40 che fa strage di bambini.
Dalla biografia emerge un Roth attentissimo a ciò che veniva scritto su di lui (sorprendenti le tante stroncature che gli ha riservato parte della stampa Usa). Tradito dal cuore malato, il finale della sua vita si scioglie in sordina perché aveva smesso di “scopare, scrivere e leggere”. Un uomo, Philip Roth, rimasto sempre fedele alla lezione di Flaubert: “Nella tua vita sii regolare e ordinato come un borghese, così da poter essere violento e originale nella tua opera”.