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 2022  ottobre 15 Sabato calendario

Garbarini, il suo ultimo marcatore, parla di Meroni

Cinquantacinque anni passati senza annebbiare i ricordi. La fantasia, i calzettoni abbassati, i capelli lunghi, l’indole anarcoide e la vena poetica. Gigi Meroni, calciatore beat, è morto il 15 ottobre 1967, investito dalla Fiat 124 coupé guidata da un giovane tifoso del suo Toro. Aveva solo 24 anni. Poche ore prima, aveva affrontato la Sampdoria al Comunale: vittoria per 4-2 e lui scatenato sulla fascia, inseguito da un altro ragazzo, Giorgio Garbarini, che oggi, settantasettenne, rivede l’ultimo volo della farfalla granata.
Garbarini, da dove cominciamo?
«Da uno spogliatoio come non ne esistono più, panche di legno e maglie pesanti. Manca poco all’inizio e Fulvio Bernardini assegna le marcature: “Meroni è suo, faccia quel che può” mi dice. Dava del lei a tutti, anche ai più giovani».
Si aspettava quel compito?
«Erano tempi di numeri fissi, di controlli a uomo rigidi e semplici: il 3 sul 7, il 5 sul 9, il 2 sull’11… Però non era scontato perché io della difesa ero un jolly: stopper quando Morini, militare, non otteneva il permesso e libero quando Vincenzi, anziano, rifiatava. Quel giorno ero terzino sinistro e Meroni correva su quel lato».
Lo conosceva?
«Tifavo Genoa, anche se all’epoca nessuno lo immaginava, e lui s’era consacrato in rossoblù: la gente adorava il suo calcio fatto di gol e serpentine e quando passò al Toro ci fu una mobilitazione. Ma come si potevano rifiutare 300 milioni di lire per un ventunenne?»
Cosa ricorda della partita?
«Tutto. Come fosse ieri. Faceva freddo, anche se era una bella giornata. Ero un buon marcatore, ma non veloce, e fu durissima: una finta, poi l’altra, ogni volta pensavo d’averlo capito e invece continuava a fregarmi. I suoi cross erano manna per Combin, che segnò una tripletta. I nostri gol furono di Francesconi e di Vieri, il papà di Bobo».
Commise dei falli?
«Tanti, e non faceva una piega. Né cadute teatrali né proteste con l’arbitro. Lo picchiavi e non diceva una parola, riprendeva a giocare e non vedevi il pallone».
Quando seppe della morte?
«Nella notte, poco dopo essere rientrati a Genova. Squillò il telefono di casa ed era il massaggiatore, mi raccontò della tragedia e non riuscivo a crederci. Ripartimmo per Torino e andammo alla camera ardente nella sede granata: mi sembra di vederlo adesso, quel ragazzo pieno di vita immobile per sempre con la testa fasciata e la maglia del Toro».
Toro escluso, avete vestito le stesse maglie...
«Al Genoa andai dopo la Sampdoria. Avevo deciso di cambiare perché Lippi era diventato il libero titolare e volevo i rossoblù che però non avevano soldi. Rifiutai Atalanta e Bologna e chiesi lo svincolo con una bugia, raccontai d’aver fatto una scelta di vita: la IV serie con il Banco Roma in cambio di un posto in banca».
Il Como a fine carriera.
«Meroni aveva iniziato lì, nella sua città, ho visitato i suoi luoghi e conosciuto i suoi amici. Avevo iniziato già a fare l’assicuratore, ma giocare mi divertiva ancora: ero l’anziano d’un gruppo giovane, Rossi, Fontolan, Vierchowod che aveva 16 anni e Tardelli. Marco da Lucca veniva in treno a Genova e lo portavo su con la mia Mg spider. Ce l’ho ancora, come l’Ardea 5 marce. E la vespa 150 verde».
Sempre in trincea, non a caso la chiamavano Custer.
«Nelle battaglie non mi tiravo indietro, ma nel ’67 non mi chiamavano ancora così: ero il Federale, perché non ho mai nascosto le idee di destra. Una volta a Latina lasciai il ritiro per seguire un comizio di Almirante, segretario del Movimento Sociale Italiano».
La fama da duro la accompagnò anche in quell’ultima partita di Meroni…
«Ben di più in altre sfide con il Toro. A quasi 78 anni ho tutti i miei denti, ma uno è scheggiato: ricordo di Ferrini. Una volta, nel sottopassaggio del Comunale, lui e Cereser minacciarono Vieri: “guai se provi a fare uno dei tuoi tunnel”. Mi misi in mezzo e in campo, su un angolo, mi diede una gomitata. Aspettai il ritorno e gli feci un bruttissimo fallo: “uno a uno”. Altri tempi, si entrava a 500 all’ora nel fango, ma a fine gara dimenticavamo tutto». —