La Stampa, 15 ottobre 2022
Quelli che volevano cambiare il mondo con la letteratura
È più difficile narrare l’amicizia che l’amore, avverte Claudio Magris nelle parole con cui Ernesto Ferrero sceglie di aprire questo Album di famiglia (Einaudi). Lo scrittore torinese, protagonista di sessant’anni di storia editoriale italiana, prende in carico la sfida; e organizza le sue “fotografie scritte” disponendole «per li rami» di un vasto e frondoso albero genealogico elettivo. Gli amici, i compagni di strada, di lavoro, gli interlocutori essenziali di un’esistenza: sono padri nobili, capotribù, signore di ferro, maghi e funamboli, sono zii sapienti e irrequieti compagni di banco.
La nostra vita, senza di loro, non sarebbe la stessa, e questo atto di restituzione – allegro e commosso a un tempo – è come un romanzo in forma di dedica, lunga trecento pagine. Qualche volta, di fronte agli animatissimi ritratti in piedi proposti da Ferrero, mi sono sorpreso a fare un gioco mentale di addizioni e sottrazioni. Le persone che si sono sommate, strada facendo, alla nostra biografia: impresumibile l’incontro con loro, e proprio per questo – riconsiderandolo alla distanza – stupefacente.
«Una piccola differenza e non ci saremmo mai incontrati», ha scritto da qualche parte Tabucchi, ragionando per l’appunto sulla «strana combinazione del mio tempo e del mio spazio e del tuo tempo e del tuo spazio». Il tempo e lo spazio di Ferrero, entrato giovanissimo in Einaudi, si è combinato con il tempo e con lo spazio di chi affolla l’ideale indice dei nomi di questo album: gente che si chiamava – si chiama! – Calvino, Primo Levi, Montale e Bobbio, Natalia Ginzburg e Lalla Romano, Pasolini e Umberto Eco.
Lo spirito con cui ciascuno di loro è consegnato è antitetico a quello della celebrazione convenzionale. «Bisognare stare attenti – osserva Ferrero – a non fossilizzarli in cliché di maniera». E dimostra che è possibile fin nelle prime pagine, quelle dedicate a due ingombranti e impegnativi «amici prediletti»: Calvino e Levi. Di Italo, come lui poteva e può permettersi di chiamarlo, Ferrero ci offre l’immagine inquieta dello stakanovista, di un uomo votato a un’etica del lavoro che diventa «dirigente tuttofare» nella casa editrice alla cui grandezza contribuisce non poco, scrittore che sperimenta di continuo, saggista e viaggiatore pieno di intuizioni. Una testa in eterno movimento, mai in vacanza.
Quanto a Levi, colpisce il modo in cui Ferrero lo contrappone alla schiera vasta di «esseri insicuri, nevrotici, egocentrici e autoreferenziali, esibizionisti, vittimisti, invidiosi delle fortune dei colleghi, queruli, eterni adolescenti» che chiamiamo scrittori. Primo – spiega Ferrero – «era l’esatto contrario: riservato, paziente, di una modestia che sconfinava nell’autolesionismo, se non nel masochismo». E rimette il dito nell’antica piaga di un faticoso smarcarsi dalla categoria dei testimoni puri: «genio della letteratura» lo definisce invece Roth, incontrandolo a Torino alla metà degli anni Ottanta.
Ogni pagina riattiva come un bagliore, è un lampo di luce chiara – e calda – sui volti di questi umani non convenzionali; sul «tranquillo imperio» leggibile nel volto di Giulio Einaudi, su quello di Vanni Scheiwiller, «folletto spiritoso e spiritato», i cui occhiali sembrano ridere con lui. Tragitti in treno, pranzi al ristorante, soste ai caffè, «interminabili notti» passate alla Fiera di Francoforte, estenuanti riunioni e correzioni di bozze, festival letterari esotici: occasioni, si direbbe con Montale. E proprio Eugenio/Eusebio, che Ferrero sulle prime non sa bene come appellare, compare in un «alone di riservatezza e di imbarazzo», strizzando le rughe, muovendo appena le mani. Sentite qua: «Sotto il volto gommoso, le labbra un po’ gonfie, stava acquattato il sorriso sornione di un gatto vocato all’umorismo nella sua speciale declinazione ligure»; un riso “agro” e “economico”. Chapeau.
L’album di famiglia offerto da Ferrero al nostro sguardo è privato e pubblico a un tempo: perché, certo, è il suo, il suo personale, però è anche il nostro – l’album di famiglia di una lunga stagione della cultura italiana, compattata da una profonda e inderogabile cultura antifascista (se ne colgono i segni nelle pagine appassionate sui “padri nobili”, da Bobbio a Foa a Revelli). È fatto delle intelligenze che hanno alimentato imprese editoriali, progetti culturali e letterari senza cui il nostro paesaggio novecentesco sarebbe irriconoscibile. Elsa Morante «avvolta in foulard e gonne multicolori» che sembra una cartomante. Lalla Romano «forte, battagliera, indomabile». I maestri di bricolage Fruttero & Lucentini. Pasolini col suo corpo «prosciugato dall’agonismo, dalla febbre di vita che lo consumava», un fascio di nervi e tendini. Umberto Eco «mostro di erudizione senza darlo a vedere», «empatico, giocherellone, curioso di tutto».
Nel congedo – bellissimo – Ferrero insiste sul peso che la scrittura, «impegno assoluto, totalizzante», ha avuto nelle vite di questi amici. E manifesta la gratitudine, la tenerezza, l’orgoglio per avere fatto parte di questa famiglia allargata: «Insieme, abbiamo condiviso l’illusione, mai dichiarata eppure reale, di cambiare un po’ in meglio il mondo con i buoni libri. Forse non ci siamo riusciti, ma ci siamo divertiti moltissimo». —