La Stampa, 15 ottobre 2022
La Russia è spalle al muro
L’Ucraina sta invadendo la Russia su mandato dell’"Occidente collettivo”. Potessimo radiografare la mente di Putin, vi leggeremmo questa paradossale carta del fronte bellico. Sineddoche geopolitica che dipinge russe quattro regioni ucraine di cui nessuna totalmente controllata da Mosca. E che il giorno dopo l’annessione già perdevano altri pezzi. Rappresentazione d’un fallimento che potrebbe sfociare nella liquidazione del presidente e forse dello Stato di cui si concepiva amministratore a vita. O nella guerra atomica che Putin scatenerebbe per impedirlo. Spettro che il Cremlino evoca nella speranza che la Casa Bianca accetti di negoziare un compromesso altrimenti improbabile.
Ma così è se vi pare. Dopo otto mesi di guerra, la Russia è spalle al muro. Con le avanguardie nel Donbass messe in rotta dalla controffensiva ucraina di settembre-ottobre, che ha svelato al mondo quanta cartapesta mascherasse la decadente facciata dell’esercito russo. «Questa è la più grande donazione all’Ucraina dall’inizio della guerra», constata beffardo un ministro della Difesa atlantico, scorrendo la lista dei mezzi – fra cui dozzine di carri armati recuperati col motore acceso – abbandonati dall’Armata russa in fuga.
A Mosca si confida nel generale Inverno per rinsanguare i reparti al fronte. Obiettivo: guadagnare tempo, contando che prima o poi l’eteroclita famiglia atlantica, stanca di guerra per procura, sanzioni e controsanzioni, terrorizzata dalla minaccia d’olocausto nucleare, stabilisca di non morire per Kiev. Possibile. Sicuro è che quando un esercito invasore passa dall’offensiva alla difensiva, come quello russo nell’avventura d’Ucraina, difficilmente ritrova slancio. Ne sanno qualcosa le potenze occidentali che a turno si lanciarono nella pianura sarmatica salvo dover ripercorrere all’inverso il percorso d’andata, affondando nelle rispettive Beresine.
Eppoi tra qualche tempo i combattenti potrebbero averne abbastanza. Ucraini e russi non sono quel popolo unico che Putin pretende, ma nemmeno alieni. Figli e soldati di famiglie miste si contano a milioni. Per quanto possano aver imparato a odiarsi, russi e ucraini sanno bene che finché le rispettive patrie esisteranno vivranno a contatto di gomito. Oggi in guerra, domani sperabilmente in pace. La rinuncia dell’Armata russa a martellare bersagli ucraini che i manuali militari avrebbero imposto di saturare di bombe, come pure l’abbondante impiego in prima linea di milizie separatiste locali, ceceni e mercenari Wagner, si spiega con l’indisponibilità di molti soldati russi a una guerra “fratricida” d’aggressione che non sentono propria e alla quale non sono stati preparati. E con la coscienza dei comandanti che non conviene mettere troppo alla prova la lealtà delle truppe, specie se di élite.
La Russia non ha ancora perso la guerra ma ha già perso la faccia. Molto peggio. Da una sconfitta si può rinascere. Senza faccia si riparte da sottozero. La credibilità è il marchio della potenza. Occorrono secoli per costruirsi una reputazione. Basta qualche mese per giocarsela.
È quanto sta accadendo a Mosca nella guerra di Ucraina. Concepita contro-colpo di Stato con calibrato accompagnamento militare, rivincita del blitz subìto nel 2014 a Kiev grazie al supporto angloamericano alla rivolta di Jevromaidan, l’"operazione militare speciale” volge in lotta per la sopravvivenza. Scopo: salvare la Russia. Rischio: morte dello Stato e sua decomposizione in ritagli di Russie via guerre non solo civili. Conseguente spartizione del suolo patrio fra nemici o finti amici occidentali, orientali e meridionali. In sfere d’influenza o per annessioni dirette. Replica in formato superiore della mischia per la successione al colosso zarista che fra 1918 e 1922 coinvolse svariate fazioni domestiche e le medesime potenze straniere che oggi il Cremlino battezza “Occidente collettivo”. Italia compresa.
«Vogliono impagliare l’Orso», constata Putin, non il tipo del suicida. Carico di risentimento verso i “colleghi” occidentali, incalzato dai cinesi che non fidandosi più di lui lo vorrebbero subito con la penna in mano a firmare la pace con Zelensky, il capo vede sfaldarsi davanti agli occhi la coorte di servitori che tutto gli deve e di cui sa di non potersi fidare. Dice molto lo sguardo assente dei dignitari che il 30 settembre si ritrovano comandati nella sala di San Giorgio al Cremlino per la cerimonia di ammissione alla Federazione Russa delle regioni ucraine di Luhansk, Donesk, Zaporizhzhia e Kherson, autolegittimate da farseschi referendum in zona di guerra. Qualcuno con in mente, se non in tasca, un biglietto di sola andata verso i conti bancari protetti nei paradisi dell’"Occidente collettivo”, altri pronti a indossare la casacca del salvatore della patria che oserà accompagnare Putin all’uscita – magari il vicino di sedia, chissà. L’indugiare delle telecamere di Stato sui volti distratti degli astanti appare riflesso forse inconscio di fine regime. O della rivoluzione che vorrà rifondarlo.
Putin cerca disperatamente di dare senso a una guerra che per la Russia non ne ha mai avuto. Qualsiasi pace si possa concepire al Cremlino, troverà la terza (?) potenza mondiale molto più debole di quanto fosse il 23 febbraio di quest’anno. Come chiedere al popolo e ai soldati russi di battersi per mitigare la sconfitta, giacché la vittoria è impossibile? Di qui la tentazione della derapata nucleare: se non posso vincere, nessun altro lo potrà. A noi pare follia. Non necessariamente a chi rischia di trovarsi con l’estremo privilegio di determinare di quale morte morire e in compagnia di chi. Non fu Putin stesso a chiedersi, nel 2018, quale senso avesse mai il mondo senza Russia? A Washington e nelle capitali europee non del tutto irresponsabili o post-storiche si prende sul serio la ripetuta evocazione russa della Bomba come risorsa da spendere, non solo da agitare a fini di deterrenza.
Una volta tolta la sicura all’arma atomica, a Putin conviene fare il pazzo. Come minimo, ci lascia in tormentosa incertezza. Vuole dividere i nemici fra chi pare disposto ad andare fino in fondo, sull’onda dell’Ucraina euforizzata dal successo di settembre, e chi preferirebbe farla finita quasi a qualsiasi prezzo sulla pelle degli ucraini ma non osa confessarlo. Discrimine che taglia non solo i soci atlantici fra loro, ma incide negli apparati e fra i decisori politici di ciascun paese.
Urge affrancarci dalla marcia della follia. Non lo faremo finché ci inchioderemo al presente immediato, matrice del futuro già scritto. Conviene ripartire dall’avvenire desiderato, implausibile finché restiamo prigionieri della cronaca. Primo passo, tregua in Ucraina. Condizione insufficiente e necessaria della pace che molto dopo verrà. Decisori responsabili si esercitano in questa simulazione coraggiosa e salvifica. Sicuramente anche al Cremlino e dintorni. Ma noi?