La Stampa, 15 ottobre 2022
Intervista a Lucoano Violante
Luciano Violante non si aspettava di venire citato da Ignazio La Russa nel discorso di insediamento da presidente del Senato. Di riascoltare le sue parole, pronunciate 26 anni fa, quando fu proclamato (proprio da La Russa) presidente della Camera. Quell’invito a riflettere sul perché, dopo l’8 settembre 1943, «migliaia di ragazzi si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà». Anche se La Russa si è ben guardato dal fare questo esplicito riferimento, limitandosi a citare la parte in cui Violante auspicava che si riuscisse a cogliere «la complessità del nostro Paese».
Presidente, ha apprezzato l’omaggio da parte di La Russa?
«Non ho sentito il discorso di La Russa, ero a un convegno a Napoli. Comunque, i commenti del giorno dopo sono, in generale, esagerati o riduttivi o ipocriti. Quindi, preferisco astenermi».
Però ha telefonato a La Russa, per dirgli cosa?
«L’ho ringraziato e gli ho fatto gli auguri per il nuovo incarico. È stata una forma di doverosa cortesia nei confronti di una elevata responsabilità costituzionale».
Quel che è certo è che le sue parole, 26 anni dopo, sono quantomai attuali, in un Paese ancora diviso, no?
«Forse restano attuali perché non c’è ancora, nella misura necessaria, rispetto reciproco tra le parti contrapposte».
A questo proposito, nel centrosinistra in molti criticano la scelta di eleggere La Russa e Fontana come presidenti delle Camere. Enrico Letta ha parlato di «sfregio all’Italia». Che ne pensa?
«È bene giudicare le persone che assumono elevate responsabilità dai comportamenti che tengono nella nuova veste. Francesco Cossiga diceva che può scattare una “grazia di Stato”, che rende indipendente e imparziale chi non lo è stato nella vita precedente».
Vale lo stesso discorso per Giorgia Meloni?
«Credo che Giorgia Meloni punti a costruire non un partito neofascista, ma un partito conservatore. Non sarà il mio partito, ma rispetto questa fatica, perché può dare una nuova e moderna identità alla destra italiana. Non dobbiamo fermarci alle etichette, anche se è chiaro che certe uscite, come quella al comizio spagnolo, andranno evitate».
Il suo sarà davvero un governo europeista e atlantista?
«Anche qui, ci sono i banchi di prova per verificarlo. Ad esempio, quando il Consiglio europeo dovrà pronunciarsi sulla risoluzione del Parlamento europeo contro le politiche restrittive delle libertà fondamentali sostenute dal premier ungherese Orban, che posizione assumerà il governo italiano? Oppure sul fronte economico, non tanto sulla legge di bilancio, che è stata impostata dal presidente Draghi, quanto sulle variazioni di bilancio in primavera. Lì vedremo i fatti».
Le divisioni nel centrodestra saranno superate?
«Da cittadino, auspico che i governi durino, perché solo in questi casi si può applicare il principio di responsabilità. Nel centrodestra ci sono senza dubbio prospettive diverse. Silvio Berlusconi ormai sembra ai margini. Salvini deve provare a rialzarsi e punterà sull’autonomia delle Regioni del Nord. Questo progetto può scontrarsi con la visione nazionale di Fratelli d’Italia. Meloni deve fare la presidente del Consiglio e, insieme, la segretaria del suo partito. In questo scenario, è difficile che i rapporti tra loro siano idilliaci».
Non è che dall’altra parte stiano più uniti: sarà possibile un percorso comune delle forze di opposizione?
«Credo che le opposizioni, pur nascendo diverse, siano destinate a lavorare insieme. All’inizio resteranno le distanze, frutto della campagna elettorale, ma tra qualche mese prevarrà un atteggiamento unitario, altrimenti sarebbe un suicidio. Sempre che non si seguano altri calcoli politici, dettati da un tornaconto personale».
A proposito, come si spiega i tanti voti presi da La Russa al Senato fuori dalla maggioranza di centrodestra?
«Capiremo meglio tra qualche giorno, quando si eleggeranno i vicepresidenti delle Camere e, poi, quando toccherà alle commissioni parlamentari. Vedremo se per La Russa c’è stata solo una manifestazione di stima da parte di alcuni senatori, o una vera e propria negoziazione politica. O magari le due cose insieme».
Non possiamo eludere il tema Pd. Già si guarda al congresso, si parla di rifondazione. Che idea si è fatto?
«Tra le forze politiche che hanno perso le elezioni, il Pd è quella che ha perso meno voti rispetto al passato. Enrico Letta ha ricostituito un partito unitario dopo l’addio di Zingaretti, ha vinto le amministrative, davvero non capisco questa autoflagellazione. Perché si è rimasti di poco sotto al 20% bisogna cambiare il segretario? Non è un problema di leader, ma di fisionomia del partito».
E non serve il congresso?
«I congressi si possono fare, ma per me Letta dovrebbe andare avanti. Basta con la visione aristocratica secondo cui è sufficiente cambiare chi guida. Bisogna ricostruire un rapporto con la società, uscire dalla comfort zone, mandare i parlamentari nei loro collegi, a parlare con chi li ha eletti, a relazionarsi con i bisogni e i dolori delle persone». —