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 2022  ottobre 15 Sabato calendario

Appunti su D’Annunzio

Notizie tratte da: Maurizio Serra L’Imaginifico Neri Pozza 2019 € 12,99 pag. 719
 
 
Altezza di D’Annunzio, ricavata dal libretto militare: 1,64 (come Chateaubriand). Questa misura non gli creava alcun complesso e gli suggerì poi lo pseudonimo “Il Duca minimo”, nato probabilmente con allusione al principe Francesco Camillo Massimo, uno dei dandy in voga nella capitale, in attesa dell’apparizione di un altro duca nella sua vita familiare
 
Lo sguardo di D’Annunzio secondo Sarah Bernardt: «color cacca d’oca».
 
D’Annunzio secondo Mussolini: «Un dente cariato che bisogna riempire d’oro»
 
«Canta l’immensa gioia di vivere, / d’esser forte, d’esser giovine, / di mordere i frutti terrestri / con saldi e bianchi denti voraci» (Canto dell’ospite, XI, in Canto novo, VAG 200).
 
Affabilità istintiva e studiatissima.
 
«Io sono un animale di lusso; e il superfluo m’è necessario come il respiro»
 
Un uomo che vive della sua penna e dei suoi debiti. Ricopia senza imbarazzo i propri manoscritti per venderli come originali agli ammiratori (il vero-falso dannunziano).
 
La leggenda dello scrittore-pilota di caccia, che non ha neanche la patente.
 
«Il genio può adottare, ma non mai rubare» (Johann Heinrich Füssli, citato da Mario Praz).
 
Gusto per la paccottiglia, bulimia da rigattiere: «buona parte delle collezioni del Vittoriale finirebbero oggi al mercato delle pulci».
 
«Amante terribile, se non sadico, ha il buon gusto di inseguire prede altrettanto sovreccitate, se non esplicitamente squilibrate, dannunziane ante litteram. Una di queste firmerà davanti a un notaio un “contratto d’amore”, affidandogli il possesso di tutto il suo corpo debitamente dettagliato, dai capelli all’alluce. Strano tipo di donna e... strano notaio: tuttavia l’atto esiste, firmato e timbrato, negli archivi»
 
«Un artista ha il dovere di coltivare con cura i propri difetti».
 
«Io darò sempre non quel che è atteso ma quel che è inatteso; e riuscirò sempre a turbare, a irritare o a trascinare una parte della moltitudine»
 
Nel dotare la città-Stato della “Carta del Carnaro”, egli forgia assieme al sindacalista Alceste De Ambris, futuro emigrato antifascista, una costituzione (in parte) libertaria molto avanzata per i tempi, testo destinato a una vita effimera, certo, ma che rimane attuale in diversi punti: dalla parità dei sessi all’istruzione obbligatoria, dal diritto al lavoro alla cogestione economica, dalla salute all’ambiente, dalla protezione dei minori alla libertà di culto, senza dimenticare la depenalizzazione dell’omosessualità, che sarà introdotta nella legislazione italiana solo un secolo dopo.
 
Giorno dopo giorno, dall’ottobre 1921 alla morte, il 1° marzo 1938, il rituale resterà pressoché immutato. Veglia, digiuna, legge, scrive, medita, riceve o respinge, a seconda dell’umore, collaboratori, visitatori, domestici, vestali, si rintana per giorni di fila in fondo a una stanza, compulsa voracemente, come ha sempre fatto, codici e vocabolari alla ricerca del termine raro che possa essergli sfuggito in sessant’anni di lavoro accanito. Circondato da poliziotti e da spie, da etère stanche, da mezzane equivoche, trasforma il suo isolamento in eresia, si beffa di un regime che aspetta con impazienza di imbalsamarlo.
 
Questo immenso cantiere comporta circa quindicimila lettere note: ma potrebbero essere il doppio o il triplo. Si è parlato di centocinquantamila, ossia da dieci a quindici lettere per ogni giorno della sua vita: troppe perfino per lui. Ma le lettere di D’Annunzio sono come i letti sui quali ha dormito Garibaldi: se ne trovano tracce ovunque. E tuttavia esistono, e se ne scoprono sempre di nuove.
 
A diciassette anni rimprovera il suo primo editore per l’uso errato di una maiuscola in una poesia, per una virgola spostata, in un’altra.
 
La foresta non è mai la somma aritmetica degli alberi (Maurizio Serra).
 
Principe W. Lovatelli, Roma di ieri. Cronache e fasti, Roma, Ruffolo, 1949, p. 333. Altro gesto napoleonico è quello compiuto a Fiume nel 1919, quando furono segnalati in città alcuni casi di peste. Il Comandante si recò al Lazzaretto, si tolse i guanti e toccò i bubboni a mani nude (all’episodio è dedicato il taccuino CXXXIX, TAC1, 1189-1192).
 
Antongini, Vita segreta, pp. 145-146. Il suo domestico Rocco Pesce doveva «prestargli qualche volta, al primo del mese, lo stipendio che aveva percepito il trenta del mese precedente» (p. 329).
 
Come osserva l’attuale presidente del Vittoriale, Giordano Bruno Guerri, «fra gli oltre ventimila oggetti della sua casa non si trova un solo fascio o elemento che richiami il regime, se non relegato fra i doni che riponeva nel solaio» (Disobbedisco, p. 514).
 
Egli si vanta di discendere «di remotissima stirpe. i miei padri erano anacoreti nella Maiella. si flagellavano a sangue, masticavano la neve, strozzavano i lupi, spennavano le aquile» (LS, 883). In Notturno rievocherà il proprio terrore infantile «quando tutta la casa risonava degli urli che mettevano nella corte i maiali grassi scannati (…). La vita mi faceva paura come se mi incalzasse con l’accoratoio nel pugno
 
Superstizioso, lo resterà sempre: nasconde un paio di dadi d’oro nella tasca del panciotto, non sopporta i numeri pari e giura fiducia assoluta al sette, cifra magica. Si inventerà anche uno spirito domestico, un angelo custode un po’ bonaccione che chiama Mazzamoriello.
 
Il padre, nato Francesco Paolo Rapagnetta nel 1838, detto don Ciccillo, è un tipico signorotto di provincia: spaccone, fanfarone, donnaiolo e giocatore, non sciocco però, né incolto, vive dispendiosamente delle proprie rendite e presto dei propri debiti. La battuta pronta e la confidenzialità dell’approccio lo rendono popolare: sarà eletto più volte sindaco e consigliere provinciale, il sesto nella tradizione familiare, dal 1819. Non gli mancano le buone intuizioni sul futuro della città: favorisce lo sviluppo della rete ferroviaria e del commercio. Forte come un cinghiale, fronte bassa, collo taurino, non ha certo la grazia esile del figlio, ma gli trasmetterà i suoi appetiti. Era stato adottato, adolescente, da uno zio acquisito, di cui forse era figlio naturale, Antonio D’Annunzio, armatore locale, che possedeva una flottiglia di battelli da pesca e da trasporto. Divenuto Rapagnetta-D’Annunzio per l’anagrafe, Francesco Paolo – o più elegantemente – Francescopaolo, sopprimerà il primo patronimico, meno altisonante, e coronerà l’operazione sostituendo alla maiuscola una “d” minuscola. Questa forzatura, frequente nelle famiglie borghesi meridionali, sarà all’origine di una piccola controversia ortografica e protocollare in Francia, quando Barrès, Jean-Cocteau e perfino Marcel Proust nella Recherche, scriverà “Annunzio”, come si scrive correntemente Chateaubriand o Balzac, senza il “de” davanti a cui pure costoro, nobili autentici, avevano diritto. Uno dei primi biografi francesi si torrà elegantemente d’impaccio, osservando che «la particella non è separabile dal nome, come il fodero dalla spada, come lo stelo dal fiore» (Geiger Gabriele d’Annunzio, pp. 133-135. Un caso simile è quello del pittore Giorgio De Chirico (ma lui scrisse sempre “de”), che i francesi chiamano “Chirico”, mentre gli italiani dicono e scrivono “De Chirico”). Fu dunque il padre e non il figlio, come talvolta si è affermato, a fare di lui Gabriele d’Annunzio: Gabriele “l’annuncio”, o “l’annunciatore”, il che gli calzerà come un guanto. Il poeta ne farà una religione, dimenticando Rapagnetta e respingendo rabbiosamente ogni menzione del suo nome preceduto da una “D” maiuscola20: minaccerà di querelare ogni giornalista o critico che osasse farlo, e quasi nessuno difatti osò farlo, finché fu in vita
 
Il solo, minuscolo “bagno blu” del Vittoriale, ristrutturato nel 1931 da Gio Ponti, contiene ottocentocinquanta oggetti repertoriati41.
 
«Il mistero non consumato della pubertà anelante e furiante, che per la prima volta mi diede in confuso l’imagine della lotta empia e sacra non mai intermessa tra l’arcangelo ch’io sono e il mostro ch’io sono!»
 
«Quando, molto tempo dopo, penserà di scrivere per un editore angloamericano un’autobiografia intitolata Short Story of My Long Life50, a farlo rinunciare non saranno né la difficoltà di orientarsi in un labirinto di leggende, che in buona parte non ricordava neanche più, né la sua scarsa inclinazione per un lavoro metodico, ma piuttosto l’impossibilità di svelarsi per quello che era. Questo Narciso si amava spudoratamente, sceneggiava la propria esistenza
senza complessi, ma non si conosceva a fondo, o solo a tratti, a sbalzi, come confessa lui stesso in Notturno: “Il male che ha devastato tanta parte della mia esistenza, che ha guastato tanta mia ricchezza, che ha avvilito tanta mia passione, che ha affievolito tanto mio impeto, difformato tanta mia opera, distrutto tanti germi, contaminato tanto desiderio, umiliato tanto dolore, il mio male originario, il mio male ereditario, eccolo, forse per la prima volta, accumulato, isolato, concentrato in me; e mi duole come dolgono le infezioni mortali. (…) Se le mie mani non fossero inerti, potrei palparlo, misurarlo, riconoscerne la forma, la durezza, il calore”» (NO, 251).
 
D’Annunzio secondo Benedetto Croce «un dilettante delle sensazioni».
 
Il caso di Pier Paolo Pasolini, che sputa sulla tomba del padre.
 
Chi osi affermare che l’egocentrismo pasoliniano, spinto fino all’urgenza di dominare la sensibilità della propria epoca, riveli una matrice dannunziana, è condannato al rogo in partenza. Eppure le analogie tra i due sono evidenti.
 
Descrizione dell’Abruzzo: «Come, e più, di altre regioni italiane…»
 
D’Annunzio e l’Abruzzo. «D’Aquila penne, ugne di leonessa».
 
D’Annunzio e il suo priapismo, «questa mia infermità ereditaria» (in una lettera a Luisa Baccara).
 
Sul padre. Ancor più rivelatore è il ritratto che ne traccerà nel Compagno dagli occhi senza cigli54: «Mio padre è là, corpulento e sanguigno, un poco ansante, con quel suo sguardo un poco torvo in cui passava talvolta uno strano ardore come di fosforo che vi s’accendesse. Vedo il collo enorme che ridonda sul solino rovescio, e nella cravatta il piccolo cane cesellato dagli occhi di rubino, e il suggello di diaspro pendente dalla catena dell’orologio. M’è vicino e m’è lontano, è fatto della mia sostanza e m’è sconosciuto. Ho potuto vivere lungo tempo discosto da lui, talvolta ho potuto avversarlo, talvolta perfino dimenticarlo; e ora d’un tratto un amore tumultuoso mi riempie, e il rammarico terribile di non essere giunto in tempo per fissare il suo viso composto nella morte”» (CSC, 431) «“Egli non mi lodava, non m’incoraggiava, né mi indicava una via né mi proponeva uno sforzo; ma aveva in me, fin dai miei più teneri anni, una fede così certa che sino al giorno della sua morte io non cessai di sentir viva in lui la mia radice. Spirito tirannico quant’altri mai, egli aveva da tempo abdicata la sua autorità sopra me, solo attento a vigilare le mie tendenze e a spiare l’ombra de’ miei sogni. Più d’una volta l’avevo veduto domare la sua natura per non contrariarmi; più d’una volta avevo udito nel suo gran corpo il fremito del sangue contenuto. (…) Era rispettoso e fidente, in un’attesa che non poteva essere delusa. E io, pur da lui tanto diverso di cultura e d’ingegno, sentivo che una parte profonda di me comunicava con l’oscurità chiusa nel suo corpo terribile, e n’era nudrida”» (CSC, 441-442).
 
Sul collegio Cicognini di Prato. «Sarà sempre Francesco Paolo a decidere…»
 
«La cupidigia della donna lo metteva in uno stato d’animo compulsivo che non dominava facilmente. Perse la verginità nel classico modo in cui la si perdeva all’epoca, in un infimo postribolo di Firenze, ma questa esperienza, che aveva traumatizzato il suo maestro Friedrich Nietzsche e tanti altri, non gli produsse il minimo disagio. Un amico antiquario gli mise a disposizione il primo dei numerosi alloggi compiacenti che poi riempiranno la sua vita. Canta con rapimento l’amore carnale capace di decuplicargli le forze, come in L’ora satanica, plagio maldestro dell’Inno a Satana di Carducci: “Voglio l’ebbrezze che prostrano l’animo e i sensi / gl’inni ribelli che fan tremare i preti / voglio ridde infernali con strepiti e grida insensate / seni d’etère su cui passar le notti”»
 
Su D’Annunzio e l’Abruzzo. «L’episodio più noto è in LAG, 551, dove riporta questo dialogo nel 1916, sul Carso, tra un assalto e l’altro: «E tu chi si? – I’ so’ D’Annunzie. – Tu si’ D’Annunzie! Gabbriele! E chi sti’ fa’ a ècche? Vàttene! Vàttene! Si i’ me more, n’n è niende. Ma si tu te muore, chi t’arrefà?» Il prode soldato in questione non è mai stato identificato. Tuttavia, c’è almeno un fondo di verità in questo racconto. L’episodio, con altre formule in dialetto, ritornerà nei vaneggiamenti di D’Annunzio dopo il «volo dell’arcangelo» (SSA, 64 – cfr. oltre, parte quarta, cap. 1)»
 
Soprannomi assegnati da D’Annunzio alle sue amanti. «Eccone un florilegio, in ordine più o meno cronologico: Elda, Lalla (Giselda Zucconi); Yella (sua moglie, Maria Hardouin di Gallese); Barbara, Barbarella, Vellutina (Barbara Leoni); Febea (Olga Ossani); Morìccica, Moriccia (Maria Gravina Cruyllas di Ramacca); Ghisola, Perdita (Eleonora Duse); Nike (Alessandra Starabba di Rudinì Carlotti); Giusini, Amaranta (Giuseppina Mancini); Coré (Maria Luisa Casati); Colombina (Doris Percy Chapman); Reginetta Carbonilla (Emanuela Massari Villarosa); Irene Basilisca (Francesca d’Orsay); Sirocchia (Cecilia de Tormey); Donatella (Nathalie de Goloubeff); Cinerina (Romaine Brooks); Chiaroviso (Suzanne Boulenger); Nontivolio (Odette Hubin); Suora Notte (Marie de Régnier); Venturina, Dolceamara, Nidiola (Olga Levi Brunner); Smikrà, Rosafosca (Luisa Baccara); Jouvence (Angèle Lager); Aélis (Amélie Mazoyer); Melitta, Laetitia, Diambra (Letizia Giupponi De Felici); Polacca, Cammellona (Tamara de Lempicka); Spagnola (Consuelo Gómez Carrillo, futura Mme Saint-Exupéry, che in effetti era salvadoregna); Lolita (Dolores Del Rio); Fiammadoro (Margherita Keller Besozzi di Castelbarco); La Piacente (Elena Sangro); Titti, Maya (Evelina Scaparelli Morasso) ecc. Si potrebbe continuare per due o tre pagine, senza dimenticare Suor Intingola o Suor Salsiera (Albina Becevello), la sua cuoca al Vittoriale»
 
«Così Ordella designerà il seno destro, Muriella il seno sinistro e Pentella «la rosa nell’ombra segreta» di Amaranta, poi, qualche anno dopo, di Venturina (VE, 100). Si ripeteva e talvolta si confondeva, ma lo si può capire dato il perpetuo trambusto erotico che fu la sua vita».
 
«Fondato nel 1881 da Ferdinando Martini, personaggio autorevole di cui riparleremo in seguito, poi diretto dallo stesso Collodi, questo «Giornale per i bambini» raccoglierà le migliori firme del tempo e avrà un ruolo non trascurabile, secondo i modelli francesi e tedeschi, sull’educazione al dovere dei giovanissimi italiani»
 
Primo amore: Giselda Zucconi, «soprannominata Elda o Lalla, figlia di un ex garibaldino, già suo professore al Cicognini. “La bianca fanciulla di Fiesole” ha l’onore di figurare come il primo amore effettivo del poeta, stabilendo in tal modo il tipo fisico femminile da cui sarà sempre attratto. È snella, slanciata, flessuosa: lo ossessiona sin d’ora la forma delle mani, dei polsi, delle ginocchia, delle caviglie. Ha «i denti minuti e puri come quelli d’un bimbo» (FO, 1013) che Gabriele attribuirà a quasi tutte le sue eroine, forse per compensazione della propria dentatura precocemente guasta83»
 
Su Roma negli anni Ottanta dell’Ottocento. «Roma non è più caput mundi là dove Claude Lorrain, Velázquez, Goethe, Chateaubriand, Stendhal, Corot, Keats, Shelley, Gogol’, lo scultore danese Bertel Thorvaldsen (che italianizzerà il suo nome in Alberto) e infiniti altri avevano conosciuto la gioia di vivere e di creare. Ma non era neppure il deserto dello spirito che Hippolyte Taine aveva da poco descritto, con un filo di condiscendenza tipicamente gallica, nel suo Viaggio in Italia (1865-1866), opera che peraltro aveva avuto il merito di diffondere l’idea che il potere temporale dei papi, sostenuto dal Secondo Impero di Napoleone III, fosse ormai un anacronismo. Non per nulla la presa di Roma, che completerà l’unità italiana a eccezione dei territori irredenti, avverrà il 20 settembre 1870, quindici giorni dopo la proclamazione della Terza Repubblica a Parigi.
 
In seguito, leggendo Il piacere, Moleschott avrebbe esclamato: «Odora di sperma» (LS, 672). Jacob Moleschott, studioso olandese naturalizzato italiano, poi ritratto in Trionfo della morte, che aveva tra i suoi pazienti anche la Duse e le cui lezioni di medicina erano seguite assiduamente da D’Annunzio.
 
Uno studioso ha recensito l’insieme dei suoi scritti per il solo anno 1886: una lista di 1170 riferimenti che occupa 350 pagine. Alla «Tribuna» consegna 78 articoli, così ripartiti: 55 firmati Il Duca minimo; 10, Myr; 6, Miching- Mallecho104; e 7 «cronache d’eleganza», ciascuna con un nome diverso: il Marquis de Caulonia, Filippo Lo Selvi, Mab, Sweet, Puck, Lila Biscuit, la Salamandra, Happemouche, Shalun Sui, Vere de Vere e così via (R. Forcella D’Annunzio 1886. Repertorio bibliografico Firenze, Sansoni 1936).
 
Soffrirà di mal di mare al punto da guardarsi poi dalle grandi navigazioni.
 
«Al tavolo della redazione, si rivela un eccellente collega e tutti chiudono un occhio indulgente sulle sue affettazioni e stramberie, “come un piccolo dio grazioso e benigno, cui fosse a tutti dolce offrire confetti e carezze, per renderselo proprizio”. Non era stato forse lui a chiedere con voce stridula, nel caffè più in voga della città, un gelato al limone in salsa di caviale110? (Le cronache del Caffè Greco, Diego Angeli, pp. 97-100).
 
L’incontro con Carducci nella redazione di «Cronaca bizantina», in occasione di uno dei rari passaggi del maestro nella capitale che detesta, ne sarà la conferma: «Pose una grande anima di guerriero su due gambe titubanti; gonfiò d’un gran soffio bellicoso un collo che per solito era strozzato da una scarsa cravatta notarile; condannò al legno
stantìo della cattedra, al lezzo della scuola cancherosa, colui che aveva sognato di somigliare il gladiatore tirreno e di cader supino bevendo l’aura del combattimento. (…) Ch’io non sperimenti la malattia ignobile, la pesante vecchiezza, la vergogna della tarda carne superstite allo spirito dimezzato o estinto».
D’Annunzio sembra vendicarsi qui dell’ostilità che l’altro gli aveva manifestato ai suoi esordi. I due non si ameranno mai. Rolland ha descritto nei suoi ricordi una serata in un palazzo romano, dove D’Annunzio tubava fra le dame, mentre, dall’altra parte del salotto, Carducci, ispido, con il fiasco di Chianti a portata di mano, lo fissava con occhio torvo di alcolizzato, cercando di provocarlo. Successivamente i loro rapporti migliorarono, e il poeta più anziano rese omaggio a denti stretti al talento del giovane concorrente... che non era riuscito a eliminare. Gabriele si affretta ad aggiungere: «Poco io lo conobbi; molto lo amai, d’un amore accorato, per la forza di passione e di malinconia ch’era in lui», il che è forse eccessivo, ma conferma l’influenza che Carducci esercitò su Gabriele, nonostante tutto112.
 
«O bocca sinuosa umida ardente / che a me, dove più forte urge il desìo, / a me sommerso in un profondo oblìo / suggi la vita infaticabilmente» (Invocazione, in Intermezzo, VAG, I, 206).
 
«Poiché ha un salario insufficiente, inizia con disinvoltura la carriera di “debitore perpetuo”, che avrò termine solo con la morte. Non beve, non fuma, l’organismo carbura con poche calorie: spesso deve accontentarsi di un uovo sodo, di una mela, di un pezzo di cioccolato e di una tazzona di caffè. Quando può, si getta su enormi piatti di spaghetti che il bravo De Cecco e altri amici gli procurano, più sostanziosi dei sorbetti al caviale.
 
Gabriele si cambia d’abito tre volte al giorno, in un baleno. La propensione per i colori chiassosi, la necessità di attirare l’attenzione non ne faranno mai una persona veramente elegante: resterà sempre un bellimbusto di provincia, un «Brummel di Pescara» (Antongini). Durante la guerra si farà cucire sui cappelli e sulle uniformi mostrine, gradi e decorazioni, con una vanità dozzinale degna dei marescialli Hermann Göring e Tito118.
 
Citiamo ancora una volta Stendhal: «Un animale terribile, la donna»131, al quale farà eco, sino all’ultimo, Gabriele: «Non amo le donne se non per quel che v’è di animale in esse; voglio dire d’istintivo» (LS, 863).
 
È praticamente sempre lui a rompere per primo.
 
«Fra tutti gli scrittori italiani che hanno posto la sensualità al centro della loro ispirazione – Saba, Giovanni Comisso, Sandro Penna, Moravia, Pasolini e altri -, D’Annunzio è forse il solo che non manifesti la minima traccia di colpevolezza, di lacerazione interiore. Se confesserà talvolta, in epoca tarda, il suo disgusto per il sesso, è perché il suo corpo spossato, consunto, non è più in grado di accordargli il godimento che egli ne ha tratto così a lungo. Allora, ma solo allora, sorgerà una presenza che non ha mai corteggiato, che ormai lo sorveglia e non lo lascerà sino all’ultimo: la dissoluzione, l’oblio. Egli strapperà l’ammissione che  “la carne non è se non uno spirito devoto alla morte”» (LS, 916).
 
«Urla, grida, guaisce, divora e si divora, in una lingua principesca dove non manca un solo congiuntivo, proprio come un gentiluomo può essere fuori di sé, senza che una ciocca di capelli sia fuori posto sulla sua fronte»
 
«Per lavorare ho bisogno, come Goethe, di uccidere la sensualità» (Antongini, D’Annunzio aneddotico p. 171. Non era proprio vero per Goethe)
 
Le parodie dannunziane furono materia frequente tra i suoi contemporanei, e non solo in Italia. Ne fornisce un’ampia rassegna A. Zollino, D’Annunzio bersaglio dell’ironia e del sarcasmo degli scrittori del Novecento, in «Rassegna dannunziana», 69/71, 2018, pp. 237-250. Ci permettiamo di aggiungere quella dedicatagli nella sua Antologia apocrifa (1927, più volte accresciuta, ultima edizione, Quodlibet-e book, Macerata, 2015) da un finissimo diplomatico, storico e letterato oggi ingiustamente dimenticato, Paolo Vita-Finzi (1899-1986). Il componimento in versi dannunziani, E scenderà quel latte ai tuoi ginocchi, è una delle gemme della raccolta.
 
In un film di culto degli anni Sessanta, Blow-Up di Michelangelo Antonioni, il molto dannunziano protagonista, fotografo della Swinging London, entra da un antiquario, dove va in estasi di fronte a un’elica di aeroplano: «Quanto» «Cosa?» «L’elica». «Può averla per... otto sterline». «Affare fatto. Ce l’ha un furgone?» «Ma oggi è impossibile». «Ma io devo... Devo averla, non posso vivere senza». «Peggio per lei, non ci si deve innamorare di cose pesanti il sabato mattina».
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
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