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 2022  ottobre 15 Sabato calendario

Note da "Italiana" di Giuseppe Catozzella

Note da Italiana di Giuseppe Catozzella (Mondadori, 2021)
Vivevamo nella casa di Vico I dei Bruzi a Casole, sulla collina della Presila, ai piedi dei monti, una casa costruita attorno
Da allora la famiglia si era data alla terra, e aveva cominciato a lavorare per i Morelli.
Avevo visto quel rudere tre volte in tutto, ci passavamo quando mamma, nelle camminate infinite per le mulattiere e i sentieri che diventavano sempre più ripidi, mi portava a trovare nonna Tinuzza nel villaggio di taglialegna e cacciatori in cui era nata, sopra Lorica, sul Monte Botte Donato. Lì la miseria era ancora più nera che in paese.
patrona di Casole, santa Marina Vergine di Bitinia,
«Ho preso da nonna Tinuzza.»
Il suo padrone, il “cappello” Donato
anche se è proprio guardando i suoi occhi rassegnati di fronte alle crinoline e alle gonne di mussola d’India della contessa Gullo, la sua padrona, che ho imparato a scappare.
Sognava di vedere la strada ferrata tra Napoli e Portici, che chiamavano “ferrovia” e che un giorno, giurava, sarebbe arrivata fino a Reggio Calabria, le fabbriche di Napoli, le industrie della seta, le metallurgie di Mongiana e Ferdinandea.
tessevano i ricami per la filanda dei Gullo.
I tessuti dei Gullo erano famosi nel Regno, non solo in Calabria ma anche nelle case dei ricchi napoletani, e si diceva che Maria Teresa in persona – Tetella, come chiamavamo quella buona regina austriaca, mentre la prima moglie savoiarda del re l’avevamo odiata – nella reggia di Caserta custodisse i più belli,
A marzo si uccideva il maiale,
Ce n’erano state tre, in piazza, a Rogliano, un paese vicino a Casole, e tutti eravamo scioccati;
registro degli “attendibili”, i sorvegliati che perdevano i diritti civili e quelli politici.
Giravano storie sulla Fossa, il carcere del Forte di Santa Caterina, sull’isola di Favignana, in Sicilia.
Fuori erano in attesa carrozze eleganti tirate da enormi cavalli calabresi con i paraocchi come i loro padroni, che passeggiavano in sciasse e panciotti per mostrare le tube nuove. Ma c’erano due
gli uomini indossavano copricapi a punta, come i nostri, per dimostrare agli invasori austriaci che tutta l’Italia era con loro. Ma anche a Napoli, aveva detto la contessa
Io e Vincenza ci siamo guardate: aveva una gonna turchese a balze, con la crinolina e il tulle, il corpetto di raso e pizzi, e un grande copricapo piumato. Mai,
la cicirata col miele e le scalille che aveva fatto fare al forno di Tonio e che Carmelina aveva portato, ancora calde, quella mattina.
Allora mamma ha preparato un piattino con i dolci e un bicchiere di vincotto
Zia Maddalena viveva in una baracca di legno alle pendici del bosco, più in alto rispetto al paese, sul pratone dove partiva il tratturo che portava alla foresta di Fallistro.
Ero circondata: il frinire dei grilli, il gracidare delle rane vicino al vecchio abbeveratoio, i grugniti dei maiali e i belati delle capre che arrivavano dalla masseria dei conti Mazzei.
Quando le chiedevo dov’era zio, lei borbottava sbrigativa: «Attorno a Serra Pedace, sta su qualche montagna a fare gli affari suoi».
Ma io questo zio lo immaginavo sul Monte Curcio, o sul Monte Scuro, nascosto in una grotta, più grosso di un uomo normale, grosso come una bestia pelosa e fortissima, con dita che parevano artigli
Prima era stato un ciabattino, ma non riusciva a racimolare nemmeno i soldi per mangiare, tra i lavori che i “cappelli” gli ordinavano senza pagarlo, l’affitto altissimo del buco in cui teneva la bottega e le tasse sulla concia del cuoio e delle pelli.
Nelle giornate senza nuvole, dalla baracca di zia si vedevano le cime tutt’intorno e, più lontani, l’Aspromonte a sud e il Pollino a nord.
Zia allora nominava quelle più alte, e le si accendevano gli occhi: «Questo è il Botte Donato» diceva, «e lì c’è il Monte Nero. Quella è la Serra Stella; quelle invece sono le montagne della Porcina, e lì in fondo c’è il Monte Curcio».
Anche a lei mancava il villaggio sopra Lorica in cui era nata, come a mamma, e ogni tanto, da quando nonna Tinuzza era morta e non ci viveva più nessuno della famiglia, andava a controllare che la piccola casa di pietra in cui erano cresciute non se la riprendesse la montagna.
L’uso civico delle terre era punito con dieci anni di carcere, nei casi più gravi con la fucilazione. Una volta, si raccontava, un bracciante era stato fucilato per essersi infilato sotto la giacca una sola manciata di spighe di grano. Dopo un’ora di cammino iniziavano
Quell’albero era morto da tempo, ormai era la casa di centinaia di grandi larve di scarafaggio.
«Stasera tenimu a che mangiare» diceva zia, e ripartivamo. Li avremmo fatti fritti nel lardo, con un po’ di pane e qualche cicoria. C’era chi sui bachi da seta stava costruendo fortune inimmaginabili; e poi c’eravamo noi. Per noi le larve, anche se di scarafaggio, erano da mangiare.
Vicino alla baracca in cui vivevamo l’unico segno di civiltà era un appezzamento di terra coltivato a gelsi bianchi e gelsi neri che apparteneva ai conti Mazzei.
In primavera quegli alberi maestosi si riempivano di fiori color dell’agata, e di foglie larghe che i braccianti raccoglievano in una grande costruzione di legno dove venivano date in pasto ai bachi, che stavano allineati sull’anditu. Prima di mutare, i bachi si avvolgevano in un bozzolo di filamento di bava che arrivava a essere lungo un chilometro. I vermicellari poi i bachi li avrebbero uccisi, e le tessitrici, dopo la trattura, avrebbero srotolato il filamento e filato la seta, che i “cappelli” avrebbero venduto nei regni di mezzo mondo. Ma noi, nella baracca di zia, a queste cose non ci pensavamo.
«Pari una scigna»
pensavo mentre prendevo il tratturo per tornare a casa.
Ma un’altra volta mi aveva raccontato che gli scoiattoli e le nocciolaie andavano matte per quei semini. Li prendevano e li nascondevano nelle crepe delle rocce per i tempi di carestia.
«I guai della pignata li conosce solo la cucchiara che mescola»
In un altro era con il padre adottivo, in sciassa rossa e tuba, sorridenti, abbracciati, su una spiaggia, appoggiati con la schiena a una piccola barca da pesca.
la libertà, dove ancora non esiste, prende la forma di quello che c’è, prima di mostrarsi come scandalo.
Quella mattina ho semplicemente preso la spoletta e l’ho infilata nel passo aperto tra i fili dell’ordito, come se fosse un movimento che mi aspettava da sempre. Da un giorno all’altro, senza rendermene conto, ero diventata una tessitrice della famiglia Gullo.
Poi guardavo l’immagine di santa Marina di Bitinia, la santa del sacrificio delle donne, e mi chiedevo se non fosse stata lei a mandarmi la maledizione.
Luigi Settembrini, 1847 Nel Paese che è detto giardino d’Europa, la gente muore di vera fame, è in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio, il progresso è un indietreggiare e un imbarbarire, nel nome santissimo di Cristo è oppresso un popolo di Cristiani. Ogni impiegato, dall’usciere al ministro, dal soldatello al generale, dal gendarme al ministro di Polizia, ogni scrivanuccio è despota spietato e pazzo su quelli che gli sono soggetti, ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori. Onde chi non è tra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannia di mille ribaldi: e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti dipendono dal capriccio non dico del principe o di un ministro, ma di ogni impiegatello, d’una baldracca, d’una spia, d’un birro, d’un prete.
Poi, quella stessa mattina, a casa è arrivata la maestra Donati, vestita con un cappotto di lana arricciata color carta da zucchero che a scuola non le avevo visto mai.
Sono passata vicino all’abbeveratoio e ho preso il tratturo che saliva verso Pietrafitta.
poco a poco i faggi hanno lasciato il posto agli abeti bianchi, arrivata sopra Ceci ho tagliato per un sentiero che si metteva in una pietraia. Adesso era completamente innevata, ma scendendo da lì sarei arrivata prima in riva al grande stagno.
C’era un ragazzo forte che abitava a Macchia, un piccolo paese separato da Casole da un colle e da una camminata di mezz’ora. Era un carbonaio, si chiamava Pietro, e con un amico, dopo il lavoro, girava per i paesi vicino al suo – Spezzano, Celico, Serra Pedace – per sfottere un po’ le ragazze e magari, un giorno, trovare moglie.
L’amico era nientemeno che Salvatore Mancuso, nipote dei Morelli di Rogliano. Era il proprietario della cravunera dove
due si mettevano a cavalcioni sul muro affacciato sulla valle, fumavano piccoli sigari Avana e prendevano un calice di birra,
«uno sciop» lo chiamava Salvatore, come si usava a Napoli.
Dopo mezz’ora Teresa si è presentata con i capelli tirati da un fermaglio che brillava, un vestito rosso, degli stivaletti di vernice con una fila di bottoncini e il fattibello sulle guance.
Salvatore era in sciassa, cappello e guanti;
Il cravunaru ha guardato il piattino vuoto della cassata.
Pietro aveva diciassette anni, Salvatore ventiquattro, la stessa età di Teresa. Salvatore era nipote del conte Donato e di Vincenzo Morelli, i fratelli di Rogliano, i padroni di papà, i signori più ricchi della Calabria. Possedevano tutto: terre, filande, masserie, cravunere. Avevano anche il progetto di aprire un’acciaieria, e avevano iniziato a esportare i loro prodotti a Calcutta.
Per preparare l’esame di ammissione alla scuola superiore, oltre all’abbiccì e alla matematica avevo da studiare la storia, la geografia, il disegno, il francese, la musica e le arti donnesche, ovvero la teoria di quello che ogni giorno facevo nella pratica: tessere e filare.
«Il bosco è ladro di terra!» ha
bosco, che portava al Monte Botte al Donato, al Curcio, al Monte Scuro, alla Serra Stella, da secoli minacciava l’ordine a cui i “cappelli” avevano sottoposto i paesi.
Ho annuito, afferrandomi agli staggi.
  (Giallo) | Posizione 1381
«Vidi, vidi» faceva a Vincenza, «qua hanno fatto il punto ermellino e invece ci andava il francese. È fatta male, sta tovaglia.» All’arrivo degli arrosti, papà ha battuto
Ma il momento non era quello giusto, il mondo non era pronto, il marciume del Regno, la corruzione e il degrado erano ovunque ma ancora non avevano iniziato a far puzzare di morte ogni piazza, ogni angolo, perfino ogni letto, così avevano incontrato soltanto rabbia e morte. Erano caduti nell’imboscata dei Borbone, capitanati dall’intendente di Salerno Luigi Ajossa che aveva avvertito “cappelli” e gentiluomini locali. Questi avevano armato i loro braccianti e col ricatto li avevano costretti a partecipare all’attacco al fianco dei soldati di Ferdinando II. Dei trecento della spedizione di Pietro in venticinque erano morti subito, trucidati da falci e forconi e roncole e mannaie, e dai fucili dei Borbone. In centocinquanta, invece, erano stati arrestati. Pietro, Gian Battista Falcone, Pisacane e Giovanni Nicotera insieme a un centinaio d’altri erano però riusciti a scappare. Avevano camminato tutta la notte su per la collina, poi, il giorno appresso, attraversati Morigerati e le grotte del Bussento, si erano rifugiati a Sanza. Ma di nuovo la sera dopo erano stati traditi. Avevano cercato da bere a qualche porta, qualcosa da mangiare in una casa, poi si erano nascosti nella campagna. All’improvviso erano arrivate le guardie urbane. Era iniziato un fuoco di fila, ed era finito nel disastro. Pisacane era rimasto ucciso, come anche Gian Battista Falcone. Giovanni Nicotera era stato arrestato e immediatamente processato, dentro la Gran Corte Criminale di Salerno, condannato all’ergastolo e rinchiuso nella Fossa.
Don Achille aveva sempre venduto la seta ai Gullo e adesso, con il vento di nuovi commerci, aveva preso coraggio e iniziato a esportarla per conto suo. Così, dopo avermi squadrata dalla testa ai piedi e non aver notato niente che non andava, ha detto che potevo cominciare dal giorno dopo. Una domenica mattina all’alba, senza neppure sapere come si faceva, mi sono ritrovata a potare i gelsi che coltivava per cibare i bachi da seta. Ognuno si occupava del suo filare, muoveva una pesante scala di legno da un albero all’altro, potava i rami e aiutandosi con un piccolo scalpello strappava dai tronchi il primo strato di corteccia, che poi veniva usato per fabbricare funi. Quando le foglie erano della giusta tonalità di verde andavano staccate a una a una e infilate in un sacco. I sacchi poi venivano portati in una grande baracca di legno ai vermicellari e le foglie disposte sull’anditu, in modo che ogni baco avesse di che mangiare. Dalle foglie del gelso bianco, più morbide e tenere, si otteneva una seta leggera; dal gelso nero, che aveva foglie ruvide e dure, se ne ricavava una più pesante, per le trine e le vele. Osservavo i piccoli bachi che strisciavano e rosicchiavano le foglie e pensavo ai giorni e agli anni che avevo perso, in casa, a tessere la loro bava. Era un lavoro sfinente,
pasta ca’ muddica e alici e tagghiulini chi ciciri, capretto e braciolette, supprizzata e mulingiani chini, tutto annaffiato dal vino rosso del Pollino. Donna Francesca ed Elina erano radiose
«Mi vuoi togliere la speranza» diceva. «E insieme alla speranza muoiono le idee, e senza idee non c’è futuro. Moriremmo cume a tanti virmi se dipendesse da te, come siamo nati. Cume a tanti virmi schifusi.»
Nella clandestinità in quelle settimane erano nati i Comitati d’ordine, circoli segreti di nobili, gentiluomini e notabili che alla luce del sole rassicuravano il re sulla loro fedeltà mentre in segreto tramavano per l’Unità d’Italia. Raccoglievano gli “attendibili” costretti all’esilio, che piano piano trovavano il coraggio di tornare ai loro paesi, alle loro case, spinti dal sentimento che le cose si sarebbero irrimediabilmente trasformate.
30 aprile il giornale clandestino “Il corriere di Napoli” aveva scritto che gli “attendibili” e i braccianti dovevano unirsi per fondare un Paese nuovo. Quella prima pagina aveva fatto scandalo.
Francesco II, credendo di tenere buoni i braccianti, il 25 giugno 1860 aveva annunciato la Costituzione e concesso una finta libertà alla stampa, come anni prima aveva fatto suo padre; e come lui aveva sottovalutato il popolo, dando per scontato che abboccasse. Così, a una velocità prima impensabile, nel Regno si diffondeva clandestinamente il manifesto dello scrittore napoletano Luigi Settembrini, che si faceva beffe di quelle concessioni. Anche gli analfabeti si rigiravano tra le mani quel foglio, che poi finiva cacciato in una tasca o bruciato, lo imparavano memoria, lo recitavano nelle cantine, nei campi, nei boschi, nelle case. Se il governo vi dà le armi, voi pigliatele. Se vi è stampa libera, voi scrivete e dite coraggiosamente che s’ha a fare l’Italia. Se potete riunirvi, voi riunitevi. Pigliate insomma ogni arma che vi danno, per rivolgerla contro di essi.
In quelle settimane i giornali cambiavano nome come si cambia la legna nel camino. Il giornale napoletano “Diorama” è diventato “Italia”; sono nati “Il nazionale”, “L’avvenire d’Italia”, “L’opinione nazionale”, “La nuova Italia”. Garibaldi, dopo Palermo, in pochi giorni ha preso Milazzo: era un’onda inarrestabile che stava per travolgere tutto. È stato allora che è cominciato il tradimento.
Quelle sono state le settimane in cui molti borbonici, fiutando come cani da caccia la fine della dinastia di Francesco II e insieme dei loro poteri, degli averi, dei privilegi, della loro stessa vita, hanno cominciato a cambiare casacca, sangue, pelle, a cambiare dio. Non solo i nobili o i galantuomini, anche i militari, i cardinali, i vescovi, i parroci, gli speziali, chiunque detenesse un seppur minimo potere o vantaggio o autorità o privilegio; addirittura l’ammiraglio Vacca, il capo delle flotte militari borboniche, da un giorno all’altro ha abbandonato le sue navi e ha cominciato a frequentare i circoli segreti dei liberali a cui aveva dato la caccia negli ultimi anni.
Improvvisamente i difensori della conservazione imbracciavano i fucili della rivoluzione. Eccola l’Italia, pensavo io davanti a quei disinibiti svolazzi, ecco perché siamo condannati a una guerra perenne per la vita, il fratello contro il fratello, il padre contro il figlio, l’uno contro l’altro, tutti contro tutti. Stava nascendo, lo vedevo io come lo vedevamo tutti, un popolo di civette e quel popolo sarebbe stato l’italiano. Eravamo uccelli che si mimetizzavano, che sopravvivevano imparando l’arte di colpire alle spalle, di sorprendere nell’ombra, di rubare agli altri un seppur minimo vantaggio. Eravamo approfittatori e spergiuri, negavamo l’evidenza. Niente per una civetta vale un giuramento, neppure Dio, e anche il papa lasciava che gli italiani si scannassero tra loro piegando la croce e gli altari ai suoi interessi. Cosa vale il Signore senza la terra su cui esercitare la signoria?
Ma proprio mentre la rivoluzione arrivava in Basilicata, ancora prima che Garibaldi sbarcasse sul continente; proprio mentre i comitati segreti formavano gruppi armati e nel piccolo borgo di Corleto Perticara si riunivano centinaia di rivoltosi, armati e vestiti di camicie rosse, sventolando bandiere tricolore; proprio mentre marciavano sul municipio, abbattevano i simboli borbonici e giuravano fedeltà a Vittorio Emanuele II e a Giuseppe Garibaldi; proprio mentre, il 18 agosto, l’intendente della provincia di Potenza, Cataldo Nitti, firmava un verbale che stabiliva il trasferimento della sovranità e della tesoreria al municipio e per la prima volta si aveva l’impressione che il potere stesse davvero passando nelle mani del popolo; proprio mentre il presidente del Tribunale civile rinunciava alle sue funzioni e il sindaco e i consiglieri trasferivano la rappresentanza a un governo provvisorio, proprio in quelle ore – mentre si smembrava ogni morale, si decomponeva ogni valore, perdeva corpo ogni credo – papà moriva, in silenzio, da solo, nella masseria di don Donato Morelli dove per anni aveva lavorato come colono.
«A chi prenderà le armi» ha detto Garibaldi in un silenzio irreale «e appoggerà la rivoluzione e l’Italia unita sotto Vittorio Emanuele, prometto solennemente la redistribuzione delle terre. Il dimezzamento del prezzo del sale e del macinato. L’abolizione delle tasse comunali. Il riconoscimento degli usi civici delle terre. Potrete fare legna, pescare, cacciare, raccogliere verdura e frutta come cittadini liberi.»
Figlio del popolo, è con vero rispetto ed amore che io mi presento a questo nobile e imponente centro di popolazioni italiane, che molti secoli di despotismo non hanno potuto umiliare, né ridurre a piegare il ginocchio al cospetto della tirannide. Il primo bisogno dell’Italia era la concordia, per raggiungere l’unità della grande famiglia italiana; oggi la provvidenza ha provveduto alla concordia con la sublime unanimità di tutte le province per la ricostruzione nazionale: per l’Unità Essa diede al nostro Paese Vittorio Emanuele che noi, da questo momento, possiamo chiamare il vero padre della patria italiana. Lo ripeto, la concordia è la prima necessità dell’Italia. Dunque, i dissenzienti di una volta, che ora sinceramente vogliono portare la loro pietra al patrio edilizio, noi li accogliamo come fratelli. Infine, rispettando la casa altrui, noi vogliamo essere padroni in casa nostra, piaccia o non piaccia ai prepotenti della terra! Giuseppe Garibaldi
Fumel, il colonnello mandato in Calabria per fare la guerra ai briganti.
Con gli occhi di mezzo paese puntati addosso, mi hanno caricata su un cavallo e ci siamo avviati lungo la strada che usciva da Macchia. Dopo il cimitero abbiamo preso il sentiero del Cannavino, dentro il bosco, il Monte Guarabino ci guardava; poi abbiamo seguito una mulattiera fino a Celico, un paesino di pastori. Una volta a Celico, abbiamo svoltato dentro il convento di San Domenico, che Fumel aveva requisito per farne il suo quartier generale.
una masseria in una valle che portava alla cava dell’Orso, nella foresta di Gallopane.
davanti avevo la vetta del Monte Volpintesta, seguivo la sua sagoma gigantesca come una stella polare, ma era al bosco di Colla della Vacca che dovevo arrivare, e mancava ancora tanto.
Non sentivo più il dolore, né la fame, né il freddo, in un giorno di cammino ho superato Camigliatello, poi Sculca. I tetti delle case dei paesi li vedevo se mi arrampicavo per le alture, cercando aria, uscendo dalle faggete.
Cercavo cenge o grotte per ripararmi,
Da un arbusto di maggiociondolo ho costruito una fionda come quelle che da piccoli facevano Raffaele e Salvo. Allora cercavo di colpire pernici e picchi neri, allocchi e gallinelle d’acqua, ma ero lenta e volavano via.
Senza rendermene conto sono entrata nel bosco di Colla della Vacca, c’era una faggeta di giganti alti cinquanta metri e larghi due,
erano gli alberi vecchi trecento anni di cui avevo tanto sentito parlare. Sapevo che Pietro e i suoi compagni erano lì, ma come trovarli?
L’astore, il capovaccaio e il nibbio,
Eravamo otto: Pietro e io; Salvatore De Marco, detto Marchetta; Salvatore Celestino, Jurillu; Gennaro Leonetti, Drago; Vincenzo Marrazzo, Demonio, e i fratelli Saverio e Giuseppe Magliari di Serra Pedace. Erano tutti ex soldati dei Borbone sbandati, passati poi a fare l’Italia con Garibaldi e alla fine richiamati dall’esercito dei Savoia, che avevano disertato. Pietro era il capo.
«Guardate qua» ha detto. «Ecco come sono vestiti i veri eroi d’Italia.» Portava giacca e pantaloni di panno nero, una larga cinta di pelle di capra, scarponi di cuoio di vacca e in testa un cappello a cono con la falda larga e floscia.
Abbiamo scalato una cengia
Avremmo chiesto denaro, in parte l’avremmo tenuto per finanziare la banda e in parte distribuito ai braccianti dei territori di Macchia Sacra, Carlo Magno, Perciavinella, Valle dell’Inferno e tra quelli che lavoravano per i signori di Serra Pedace, Casole, Macchia, Aprigliani, Celico, Rogliano, fino a San Giovanni in Fiore – la nostra zona di influenza.
una masseria non lontana da Spezzano. Ma
Jurillu allora ha tirato fuori la ciaramedda,
gli altri lo accompagnavano con i fischietti a paru di canna e intonavano canti che esaltavano la lotta per la sopravvivenza e lo scontro tra l’uomo e gli animali.
i padroni del concio di liquirizia di Sollazzi,
Eccolo, pensavo, il destino di noi italiani: o fai il ruffiano, il predatore, la poiana e la civetta; oppure fai il ladro, il delinquente, il brigante, lo stambecco.
«Evviva l’Italia» ho detto. «Il Paese dove tutti sono in guerra con tutti. Se questa è la giustizia, alla giustizia preferisco mio padre.»
contrada di Piano dei Santi,
Ma cambiato il potere, come un pecorone o una civetta aveva cambiato anche idea e la verità era che di bande di briganti ne aveva già sgominate parecchie, fucilando e poi straziando i cadaveri, e incendiando le masserie, i fienili, le proprietà di chi collaborava: la banda Palazzo della zona di Corigliano e Rossano; la banda di Gaetano Rosa Cozza di Acri; quella di Camponetti di Longobucco; la banda Lavalle di Terranova e Tarsia; la banda di Repulino del territorio di Cassano; quella di Vincenzo Chiodo di Soveria Mannelli e di Leonardo Bonaro; di Pietro Paolo Peluso e di Salvatore De Marco detto Francatrippa, di Serra Pedace. Aveva ucciso senza pietà, senza rimorsi, così come aveva ammazzato un esercito di braccianti, coloni, pastori, taglialegna, cravunari che a quelle bande portavano viveri, armi e informazioni.
Abbiamo superato le valli dei fiumi Neto e Garga e dopo aver scalato il Monte Altare e il Sordillo abbiamo tagliato le foreste secolari della Fossiata e del bosco di Fallistro. Al tramonto facevamo il fuoco e dormivamo qualche ora, prima dell’alba ripartivamo col freddo che diventava pungente.
Siamo arrivati alla valle del Trionto una mattina col primo sole, e di fronte a noi è comparso il Botte Donato con la cima innevata. Bacca apriva la via, e noi le andavamo dietro. Abbiamo tagliato verso le valli del Crati e del Savuto, a destra c’erano monti percorsi da forre e boschi fittissimi, a sinistra montagne scavate da gole profonde, invase di faggete e muschi. Dopo dieci giorni abbiamo lasciato i paesaggi ampi della Sila Grande per entrare in quelli tormentati della Sila Piccola, poi finalmente si è alzata la sagoma minacciosa dello Scorciavuoi e in fondo la forma del Monte Gariglione.
Era lì che dovevamo arrivare. Abbiamo tagliato la valle e a notte fonda siamo entrati nella gola del Soleo, un posto così buio che veniva chiamato Manca del Diavolo.
la valle della Tacina,
Francesco Lavorate, guardia mobile di Aprigliano,
Lo stesso avevamo fatto con il conte Longo di Serra Pedace e con il barone Scipione Giudicessa di Spezzano Grande.
cunei di maggiociondolo,
Durante quell’inverno era cominciata anche la spoliazione delle riserve d’oro del Banco di Napoli, che con quelle avrebbe ripagato il debito che il Regno piemontese si era fatto per sovvenzionare la guerra contro il Sud. In quattro e quattr’otto avevano preparato la legge sul “corso forzoso”: la moneta del Banco di Napoli, i ducati, poteva essere convertita in oro, mentre quella della Banca nazionale italiana, le lire, no. La Banca nazionale italiana vendeva alle banche del Sud titoli di credito e in cambio riceveva ducati, poi con quegli stessi ducati comprava l’oro delle riserve del Banco di Napoli. Era un trucco, in poco tempo il Sud e le sue banche sarebbero rimasti senza oro; in cambio, avrebbero avuto i forzieri pieni di carta straccia.
Fuori dalla Calabria c’erano Carmine Crocco, Ninco Nanco, Giuseppe Caruso, Nicola Summa e le altre bande che combattevano in Basilicata. L’ex sergente borbonico Romano, Pizzichicchio e Papa Ciro Annicchiarico che combattevano in Capitanata e Terra di Bari. Le bande della brigata Fra’ Diavolo, di Antonio Cozzolino, di Luigi Auricchio in Terra di Lavoro. Ma dall’altra parte c’era un esercito di centoventimila soldati tra bersaglieri, carabinieri, guardie reali e guardie nazionali, il cui unico desiderio era vedere le nostre teste infilzate su un palo.
«O brigante o emigrante» ha detto Raffaele, stringendo il fucile.
Acri, un grande paese dalla parte opposta della Sila, nella valle del Mucone, all’ombra del Monte Noce.
siamo divisi in due gruppi, nascosti in due punti diversi di Acri. Da entrambi si teneva d’occhio la fontana del Pompio, appena fuori del paese, il posto dove le civette ogni domenica si rinfrescavano prima della passeggiata in centro.
Ai briganti e ai loro parenti. Io venni nelle Calabrie per estirpare il brigantaggio da queste province benedette dal cielo e contristate dagli uomini. L’amore che porto all’Italia, l’affetto che porto ai calabresi fecero accettare questa grave e dolorosa missione. Io considero il brigantaggio come la piaga più perniciosa che possa essere a tutte le classi della società e specialmente ai poveri. Se i calabresi, e specialmente i poveri, volessero ascoltare la mia voce che è voce d’amico, di fratello, di padre, tutti s’adoprerebbero con me per l’estirpazione del brigantaggio, e fra pochi giorni non esisterebbe più brigantaggio in Calabria. Io mi rivolgo particolarmente ai parenti dei briganti, ed agli stessi briganti, pei quali non ho odio ma compassione profonda. Sovente, il cuore ripieno di dolore, dico tra me: Oh se potessi parlare ad uno ad uno ai briganti ed ai loro parenti, e far loro intendere la voce della verità, la voce dell’amore, certo si arrenderebbero alle mie parole. Discepolo del Vangelo, il mio cuore gioirebbe per una pecorella smarrita che torna all’ovile, più che per le cento che non l’hanno abbandonato. Il brigante coperto dei maggiori delitti si può presentare a me come a un padre. Io mi adopererò per quelle diminuzioni di pene che la legge permette. Dopo ciò, se non ascoltano la voce dell’amore, io e tutte le autorità militari e civili saremo costretti di usare contro i briganti e i loro parenti le armi terribili che la legge mette in nostra mano. Per l’onore e la felicità delle Calabrie, e specialmente nell’interesse dei poveri, bisogna che il brigantaggio cessi “coll’amore o col terrore”. Catanzaro, 1° settembre 1863 Il luogotenente generale Comandante la divisione militare delle Calabrie Giuseppe Sirtori Visto per la pubblicazione Il Sindaco Morelli
quelle sere, manutengoli e amici ci portavano le prime pagine de “L’Indipendente”, del quale Garibaldi aveva affidato la direzione a un suo amico, lo scrittore francese Alexandre Dumas. Il rapimento di Acri aveva fatto crescere la nostra fama. Io, poi, si diceva, ero la donna più celebre d’Italia, tutti, da nord a sud, sapevano chi era Ciccilla. Dumas aveva anche scritto la mia storia in sette puntate, raccontando la mia vita e quella di Pietro dentro i boschi. Eravamo bestie che attaccavano i potenti senza mostrare pietà, io avevo serpenti per capelli, zanne per denti, artigli per mani e una lunga coda biforcuta.
D’un tratto, fuori da una radura ci siamo trovati di fronte, torreggiante, la parete dello Scorciavuoi. Dovevamo esserci persi, dal bosco i
L’ho curata con impacchi di resina di larice e un decotto di funghi agarici bianchi, per disinfettarla.
Marchetta e Jurillu conoscevano un posto che sembrava perfetto. Era una ex torre di castagnai, una casella diroccata, un nido d’aquila su un costone di roccia accanto alle Balze di Jumiciellu, a solo un’ora e mezzo di cammino da Casole e da Macchia.
Oltre a essere un buon nascondiglio, era anche un luogo da cui saremmo potuti fuggire facilmente: si trovava proprio alla fine della carrera, l’antica mulattiera che da Pedace portava al Timpone Tenna e al Timpone Bruno, le montagne che si affacciavano sulla valle del fiume Crati.
un lato, a un metro d’altezza c’era un graticcio di titilli, tronchi di castagno rifilati su cui erano appoggiate delle assi e un tempo anche foglie secche. Sotto, veniva mantenuta una brace debole e costante, il fumo liberava le castagne dai parassiti e il calore le seccava. Una volta secche, le bucce venivano vendute come combustibile,
adesso però l’essiccatoio era solo un rudere.
Poi abbiamo preso tre cavalli e siamo arrivati fino al bosco del Corvo, nel territorio di Spezzano Grande.
Abbiamo passato il fiume Neto: dentro il bosco di Caccuri c’erano delle grotte che conoscevamo.
Quello che so è che mi hanno portata al carcere di Cotronei.
Ferraris era sposato con una ragazza che si chiamava Caterina. Erano andati insieme a Milano a combattere su una barricata mobile, come le chiamavano loro, in quelle cinque giornate contro gli austriaci. «Era forte» ha detto, «non aveva paura di niente.» Ha detto che tutti la chiamavano Gigogin come la ragazza della canzone, perché era proprio come lei, non c’era niente che le faceva paura. Quella era la canzone che i bersaglieri cantavano anche sulle nostre montagne, la sentivamo rimbombare nella Sila, ci annunciava che stavano arrivando. Mi ha raccontato che era talmente famosa, quella canzone, che l’avevano imparata anche gli austriaci: pensavano fosse una specie di filastrocca e invece era una canzone contro di loro. Quando avevano combattuto la battaglia finale, a Magenta, dieci anni dopo, tutti e due gli eserciti avevano caricato suonando la canzone per Gigogin. Gli ho chiesto di cantarmela, si è rifiutato. Ma quando ho detto che avrei chiesto che mi tagliassero il braccio prima della testa, perché non sopportavo più il dolore, che forse stava andando in cancrena, per farmi felice me l’ha cantata a bassa voce: «E la bella Gigogin, col tremille-lerillellera, la va a spass col sò spingin, col tremille-lerillerà. Di quindici anni facevo all’amore: daghela avanti un passo, delizia del mio cuore. A sedici anni ho preso marito: daghela avanti un passo, delizia del mio cuore. A diecisette mi sono spartita: daghela avanti un passo, delizia del mio cuore». Ho riso, ho detto che doveva essere proprio una ragazza forte, sua moglie. Per poco invece lui non si metteva a piangere, lì impalato come a nu mammalucco. La sua Caterina era morta su quelle barricate nel ’48 e da allora lui si era ritirato in montagna da solo.
CONDANNA DI MARIA OLIVERIO, VEDOVA MONACO Il Tribunale Militare di Guerra per la provincia di Calabria Ultra 2, situato in Catanzaro: Condanna Maria Oliverio, vedova Monaco, alla pena di morte mediante fucilazione nella schiena ed alle spese del giudizio. Dichiara caduti in confisca i fucili, i revolver, denaro ed altri oggetti sequestrati. Manda infine la presente sentenza a stamparsi, pubblicarsi e affiggersi a norma di legge. 30 aprile 1864
Catanzaro, 1° maggio Ministero della Guerra, Torino Generale La Marmora, Napoli Vedova Capobanda Pietro Monaco Maria Oliverio di anni ventidue brigantessa condannata morte questo tribunale Guerra. Sospesa esecuzione paragrafo cinquecentotrentauno codice penale militare. Chiedo Grazia Sovrana, commutazione pena capitale in lavori forzati a vita perché donna trascinata al male dalla malvagità del marito e perché altra sentenza capitale eseguita in questa città son quindici giorni contra brigante disertore Coppola. Dopo esempio rigore esempio reale clemenza farà buon effetto. Trasmetto Generale La Marmora sentenza processo. Generale Sirtori Domenica 8 maggio 1864 Torino, 8 maggio Al Comando 6° Dipartimento di Napoli Arrivate stamane carte relative vedova Monaco. Sua Maestà Vittorio Emanuele ha commutato pena morte in quella lavori forzati a vita. Prego avvertire Comando Divisione Catanzaro. Il Ministro A. Della Robbia
La carrozza era una berlina nera con lo stemma di casa Savoia dipinto al centro dello sportello e, sotto, quello più piccolo dei bersaglieri. A cassetta c’erano due giovani soldati assonnati, la giubba nera, i pantaloni bianchi e il cappello piumato. Davanti, quattro grandi cavalli calabresi bai.
La carrozza è tornata indietro, siamo entrati nella grande faggeta di Pietrafitta.
Nella nostra rincorsa eravamo arrivati fino al bosco di Fallistro, sul Monte Scuro,
Fausto Gullo, nipote della bambina rapita da Ciccilla e Pietro, nominato ministro dell’Agricoltura del secondo governo Badoglio, fra l’estate del 1944 e la primavera del 1945 emana decreti che concedono la terra ai contadini e che disciplinano, in senso più favorevole ai lavoratori, i contratti di mezzadria e quelli colonici, onorando così, ottant’anni dopo, il debito di Garibaldi. Per aver riconosciuto i loro diritti, passerà alla storia come “ministro dei contadini”. Pare storicamente accertato che l’azione criminale di Ciccilla e Pietro nei confronti della famiglia Gullo abbia influito sulla presa di posizione del nipote.
Nel museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino sono esposte due fotografie di Ciccilla, scattate dopo la cattura, in cui appare col fucile e con il braccio fasciato, a causa del colpo che ha ucciso il marito Pietro. Le fotografie appartengono all’archivio di Cesare Lombroso, sono materiale numerato in appoggio alla teoria medico-antropologica del “delinquente per natura”.
L’idea di questo romanzo è nata molti anni fa, quando da bambino mia nonna mi raccontò le gesta di un’ava che insieme al marito combatteva dai boschi come brigantessa. Le prime fonti per tracciare la vita di Maria Oliverio sono stati gli articoli che Alexandre Dumas le dedicò su “L’Indipendente”, il giornale che diresse dal 1860 al 1864. Nel 1864 Dumas ne scrisse anche la storia in sette puntate e aveva in progetto un romanzo che non completò. Quello stesso anno scrisse invece Robin Hood. Il principe dei ladri, che uscì postumo nel 1872, ispirato a Maria Oliverio e a suo marito Pietro Monaco. Fondamentali sono stati gli studi accuratissimi di Peppino Curcio e i faldoni dei processi istruiti contro Maria Oliverio e la banda Monaco, depositati all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, all’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma e all’Archivio di Stato di Cosenza, che mi hanno consentito di ricostruire tutti gli eventi con la massima precisione, fino alla resa fedele di alcuni dialoghi. Detto questo, è pur sempre un romanzo. Alcune scene della vita dei garibaldini sono ricavate dalle lettere, dai diari e dalle testimonianze di quel periodo, specialmente dalle memorie del bersagliere lombardo Carlo Margolfo e dai libri di Ippolito Nievo. L’incipit dell’ottavo capitolo è un omaggio a uno scritto di Albert Camus, Retour à Tipasa, in Noces, suivi de L’été. Alcune scene dei boschi sono invece un omaggio ad alcune pagine di Mario Rigoni Stern. Infine, sono debitore a Tommaso, che mi ha portato a camminare e a dormire sul Botte Donato e sulle montagne della Sila. Questo romanzo è dedicato anche alla memoria e agli studi di Alessandro Leogrande, con cui non mi sarei mai stancato di parlare della faglia tra Nord e Sud. Io stesso di quella faglia sono l’esito, e quella faglia porto dentro.
 
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