Robinson, 15 ottobre 2022
Intervista a Franco Cordella
In quel libro di onesta dissimulazione che èTao 48 (nessun riferimento a faticose e iniziatiche vie orientali) Franco Cordelli scodella la propria vita ricoperta dal velo delle allusioni. Verrebbe da chiedere a questo maestro della reticenza che cosa siala verità. Guardo l’uomo, dai tratti fini, nel suo veleggiare verso gli ottant’anni. Critico temuto delle scene teatrali, colto nelle disseminate letture; dotato, sospetto, di quella punta di narcisismo che gli insaporisce l’io senza però guastarlo, e rivedo quei vecchi intellettuali tutti di un pezzo, un tempo chini sulla Storia e oggi immersi nel loro privato.
C’è un cambio radicale di scena. Del resto chi ha più la forza di comprendere dove va il mondo se non capisci dove stai andando tu? Cordelli si è tuffato nei ricordi come in un mare di nebbia: donne, amori, risentimenti, amicizie, libri, film, insegnanti, case, luoghi e soprattutto Roma. La Roma toponomastica, inseguita, amata, tra infanzia, adultità e vecchiaia che incombe come un’amante storica mai dimenticata.
Cos’è questa città per te?
«Al di là dei cinghiali e della spazzatura, Roma è i posti in cui ho abitato: piazza Alessandria, vicino al mercato coperto, piazza Bologna dove ho trascorso la mia infanzia. Con mio fratello andavamo oltre la ferrovia a scontrarci con altre bande. Ora, come vedi, abito dalle parti di Ponte Milvio. Nella casa dove vivo ci sono tornato per mia madre, dopo un periodo milanese. È un luogo occupato da libri. Ti potrei al massimo offrire un caffè, non cucino, non faccio la spesa. Il frigorifero è uno spazio dove metto i libri. Mangio fuori, pranzo ecena. Sono le mie uscite, per il resto sto a casa a leggere e a scrivere. Rimango un animale notturno, memore dei miei trascorsi: la Roma degli anni Sessanta e Settanta, quando l’avanguardia teatrale si era imposta sulla scena mondiale. Mi chiedi cos’è questa città per me. È una passione, forse un po’ storta e gratuita, ma non potrei pensarmi altrimenti che romano».
Hai fatto qui i tuoi studi.
«Fino a tutto il liceo e parte dell’università. Seguivo le lezioni di americanistica di Elémire Zolla e quelle di letteratura di Giacomo Debenedetti. Chiesi a quest’ultimo la tesi di laurea. Mi disse “non dò tesi a chi al mio esame ha preso ventotto”. Fu un trauma. Decisi di smettere. Per tre anni lontano dall’Università. Poi, su insistenza di mia madre, ripresi il corso degli studi.
Questa volta a Urbino. La scelsi perché i miei nonni vivevano a Cantiano, a pochi chilometri. Dormivo da loro e frequentavo la facoltà di lettere. Mi laureai in letteratura americana con Alfredo Rizzardi, fu lui a tradurre e a curare iCanti pisani di Ezra Pound. Un tipo interessante Rizzardi.
Chi sono stati i tuoi riferimenti?
«Ovviamente Debenedetti, malgrado il rifiuto. Poi Zolla, che seguii un paio d’anni. Faceva corsi sui libri meno conosciuti di autori importanti. Ricordo L’orsodi Faulkner. Di Zolla avevo letto Eclisse dell’intellettuale, un grande libro, mi pare del 1964. Poi presi in mano Volgarità e dolore. Mi irritò che parlasse male del cinema. Per me è difficile trascorrere una sera senza vedere un film».
Come guardi un film?
«Cerco di abbandonarmi al flusso delle immagini. Ora che ho perso l’abitudine di andare al cinema, li guardoin dvd o nei canali on demand. Non è più come quando la famiglia si metteva nel tinello davanti al piccolo schermo in religiosa aspettativa».
Altri tempi. I tuoi che facevano?
«Mio padre lavorava in banca, mia madre, quando noi figli siamo diventati autonomi, andò a lavorare all’Unire, un ente che si occupa del patrimonio ippico italiano. Fu mio zio, che possedeva una scuderia importante, a fondarla. Un suo cavallo, Nuccio, vinse “L’Arc de Triomphe”. Ho sempre in testa una foto che lo zio aveva in casa: si vede una bilancia, su un piatto Nuccio e sull’altro una montagna di soldi. A fianco lo zio sorridente e l’Aga Khan, che comprò il cavallo».
Ti piacciono i cavalli?
«Mi fai venire in mente una frase che mi disse mio padre: ricordati Franco che i veri giocatori scommettono nelle corse al trotto, non in quelle al galoppo. Intendeva che con i cavalli da corsa rischi di farti male. Insomma, bisogna stare con un piede sulla soglia del successo, mai oltrepassarla».
Un certo successo ti arrise con il Festival dei poeti a Castelporziano. Tu che c’entravi con la poesia?
«Tutta la mia adolescenza l’ho passata leggendo i testi dei poeti più disparati. Poi arrivò la neoavanguardia e decretò che la poesia, un certo tipo di poesia, era morta. Ma come? Avevo passato anni dentro quel mondo. Con Alfonso Berardinelli per reazione confezionammo un’antologia di poeti. Nel 1977 invitai al Beat ‘72 un gruppo di poeti a recitare le proprie poesie. Fu un successo clamoroso. Dissi a Simone Carella, regista dello spettacolo, che dovevamo replicare quei recital, ma questa volta in riva al mare».
Così nacque Castelporziano?
«Era il 1979, Roma sussultava sotto la vena embolica di Renato Nicolini. Alzammo un catafalco sulla sabbia. La prima sera accadde il finimondo. Sul palco arrivò di tutto. Il pubblico ci mitragliò con pomodori, bucce di anguria, torsi di mela, ortaggi vari. La seconda sera volarono sedie e bottiglie. Finì tutto sulle pagine dei giornali. Ma nella serata conclusiva sotto il palco c’erano trentamila persone. Il pubblico si divise tra fascinazione e rifiuto. Fu una cagnara pazzesca. Fino a quando Allen Ginsberg seduto con le gambe incrociate presentò se stesso e gli altri poeti e poi cominciò il suo mantra, una litania che mise tutti d’accordo. Il successo di quella tre giorni resta per me inspiegabile».
Avevi creato il populismo poetico.
«Ma sì, uno vale uno. Tutti si sentivano autorizzati a salire sul palco per declamare le proprie stupidaggini».
Che cosa pensi dei poeti, quelli veri, intendo?
«Ho smesso di leggere poesia da un bel po’. Cosa penso? Sono animali sulfurei. Hanno lo zolfo sottotraccia. Ogni tanto si avverte l’odore delle uova marce. È il loro modo di protestare».
Non capisco.
«Diversamente dagli scrittori non sono quasi mai al centro della scena letteraria. I loro libri non vanno in classifica, non li vedi in televisione. La poesia è l’arte meno influente che esista».
Forse perché è la più allusiva e dunque remota.
Anche tu però, nei tuoi romanzi, pratichi l’arte dell’allusione.
«Trovi?».
Dietro “Il Duca di Mantova” c’è Silvio Berlusconi.
«Era un romanzo scherzoso, che invece di parlare di politica descriveva una mutazione antropologica dell’Italia. Quella degli anni Ottanta e Novanta».
Subisti un processo.
«E lo vinsi».
Anche il tuo nuovo romanzo “Tao 48” è tutto una
trasfigurazione.
«La trasfigurazione richiede una certa lontananza dalla cronaca, dai luoghi, dai personaggi e perfino dai tuoi traumi. Ci sono, ma appunto trasfigurati. Letti da una certa distanza. Per me è anche un modo di tenere a bada la vanità. Il vero compito dello scrittore è cercare di controllare la propria vanità. È un lavoro religioso e improbo. Perché la scrittura, nello stesso tempo, si scontra con la vanità e rappresenta il fuoco che la scalda. Una lotta senza quartiere».
Fammi un esempio.
«Penso che Cechov, più di ogni altro, abbia combattuto con successo la propria vanità. Non l’ho mai visto mettere al centro della scena il proprio io orgoglioso».
Cosa che invece riusciva benissimo a Giorgio Strehler, al quale alludi pesantemente in “Tao 48”.
«Non mi è mai piaciuto. Era un concentrato di vanità e potere. I suoi allestimenti, per quanto interessanti e autorevoli, andavano in una direzione opposta a quell’avanguardia alla quale mi sono sempre sentito legato: Bob Wilson o Peter Brook, per citare due nomi di pubblico dominio».
Anche con Carmelo Bene hai avuto un rapporto burrascoso.
«Nel 1974 quando, dopo una parentesi di cinema, tornò al teatro, scrissi un articolo in cui lo criticavo non come attore ma come un uomo avido di soldi. Mi sfidò a duello. Rifiutai sostenendo che non potevo accettare uno scontro con chi sapevo aveva preso lezioni di scherma. Per lungo tempo non parlai più dei suoi spettacoli. Anni dopo, un po’ per sfregio e provocazione, recensii il suo Lorenzaccio senza averlo visto. Fu un atto abbastanza infame da parte mia, ma volevo sottolineare una certa sua prevedibilità sulla scena. Come se ogni volta rifacesse il verso a se stesso.
E poi accadde una cosa inaspettata».
Cosa?
«Mi telefonò una sera, era la vigilia di Natale del 1994.
Ti vorrei vedere, disse. Quando? Chiesi. Subito, rispose. Ci incontrammo il giorno di Natale. Andai a casa sua e restammo a parlare dalle 10 del mattino alle 8 di sera. Quella lunga seduta servì a cambiare radicalmente il nostro rapporto».
Non ti chiedo cosa pensi del suo teatro.
«Non ce n’è bisogno. Ha sfiorato il kitsch ma non c’è mai caduto dentro. Recentemente ho scoperto, ed è curioso, che Carmelo andò a trovare Aldo Braibanti. E in seguito commentò quell’incontro dicendo: ho imparato molto da quel genio straordinario. Credo siastata la prima e forse unica ammissione di umiltà di Carmelo».
Come sei diventato critico teatrale?
«Fu Elio Pagliarani, su segnalazione di Walter Pedullà, a chiamarmi. Gli serviva un collaboratore per la rubrica teatrale che teneva su Paese Sera. Cominciò così il mio rapporto con il teatro. A Elio devo indirettamente la mia amicizia con Ingeborg Bachmann. Abitava a via Margutta, accanto alla casa dove la scrittrice viveva con Max Frisch. La incontrai in un paio di occasioni. Una volta la trovai sdraiata sullo zerbino della porta di casa. Frisch l’aveva lasciata fuori. Rividi la Bachmann a Vienna a un pranzo di nozze di mia cugina e sedetti allo stesso suo tavolo. Era incantevole, dolorosamente incantevole. Appresi che si era separata da Frisch. A Roma uscimmo qualche volta assieme. Scoprii la sua vita disordinata, l’esatto opposto della sua scrittura che resta straordinaria.
Avevo 27 anni. Morì in maniera drammatica tre anni dopo. Era il 1973. Quella fine, lei avvolta dalle fiamme, mi fece soffrire per mesi».
In “Tao 48” affronti il tema della malattia e della morte. Tra l’altro “Tao” è l’acronimo di un posto dove a Roma sei stato curato.
«Della morte non ho paura. Mi auguro solo che non cisia il degrado fisico, quello non lo sopporterei. Ho trascorso mesi in ospedale ed è stato come scoprire un’altra dimensione di me».
Quale?
«Non la rassegnazione, ma una quiete profonda. Non vivo di nostalgia. Del passato non mi frega niente.
Eppure mi mancano certe albe che vedevo dalla finestra dell’ospedale. Pensavo davvero che la vita rinascesse ogni giorno. Come un omaggio sincero a un’esperienza che si ripete».
Ho trovato singolare, a proposito di omaggio, quello che nel libro rivolgi a Ennio Flaiano, così diretto ed esplicito.
«È vero, ma in fondo Flaiano è stato tutto quello che avrei voluto essere. Mi piacerebbe aver scritto libri come li ha scritti lui».
Perché, come li ha scritti?
«Con una consapevolezza che sfiora il disincanto. Lo sentivi in trattoria esclamare: “A Cesare che voi? Ma vattela a pià in quer posto!”. Questo era Flaiano: scettico verso il genere umano. E dolorosamente umano verso i dubbi che lo attanagliavano. Il dialogo finale con lui è la mia personalissima utopia. Non ho potuto essere Flaiano, ma posso essere quello che per un momento lo riporta in vita. In fondo anche questo rientra nei compiti della scrittura».