la Repubblica, 15 ottobre 2022
I segnali delle Camere
La giornata di ieri ha offerto quattro indicazioni. La prima ovviamente riguarda il neo presidente della Camera, Lorenzo Fontana. Il quale non è solo un esponente esplicito del “partito russo” in Italia, in nome di una visione anti-occidentale e anti-moderna che è estrema per la stessa Lega. Fontana discende da quella Liga Veneta che agli esordi si contrappose alla Lega Lombarda di Bossi. Questi interpretava l’autonomismo con una punta di spirito libertario, per non dire anarchico. I veneti erano invece chiusi nel loro “sovranismo” locale ed etnico, dediti al culto del passato (chi non ricorda il grottesco assalto al campanile di San Marco?), nemici del governo di Roma più dei lombardi. Bossi non avrebbe mai fatto eleggere presidente di Montecitorio un figlio di quella Liga. Salvini invece ha voluto Fontana e ha manovrato in modo da stringere un accordo di convenienza con Giorgia Meloni, che nel frattempo faceva i conti con Berlusconi. L’intesa iniziale era però sul capogruppo del Carroccio, Molinari: lo scambio è avvenuto quando era troppo tardi per avanzare delle riserve. Le quali si sono comunque manifestate in quella quindicina di voti che sono mancati al leghista veneto.
Senza dire che sul piano internazionale il segnale è del tutto negativo.
Il secondo punto riguarda il foglietto su cui Berlusconi ha appuntato il suo astio verso la futura premier, “una con cui è impossibile andare d’accordo”. S’intende, i tre capi del centrodestra si recheranno insieme da Mattarella per le consultazioni: in caso contrario l’alleanza sarebbe già morta e Tajani, che oggi è sicuro di essere ministro degli Esteri, resterebbe con un pugno di mosche. Una situazione che accentua il rancore di Berlusconi, ormai convinto di aver quasi perso il controllo del suo partito. E non ha torto, dal momento che Giorgia Meloni sta mirando con freddezza al collasso definitivo di Forza Italia. Il problema è che il patto con Salvini, necessario per non compromettere in partenza le prospettive del governo, ha un costo non indifferente: la Lega riceverà un numero di posti di governo superiore al suo peso elettorale e inoltre, lo si è visto, ha sistemato una figura scomoda come Fontana a Montecitorio. Come dire che, se vuole consolidare la sua leadership, la giovane politica non ha per ora un’altra scelta.
Terzo aspetto. È vero che il presidente della Camera non ha peso politico, tuttavia all’estero valutano che si tratta della terza carica dello Stato. Come Nancy Pelosi, pensano a Washington. Ne deriva che lo sforzo della futura presidente del Consiglio per rassicurare gli alleati circa la linea atlantica della maggioranza dovrà essere ancora più convincente. Idem per quanto riguarda l’Unione europea, visto che a Montecitorio c’è oggi un personaggio che manteneva ottimi rapporti con i neo-nazisti greci di Alba Dorata e urlava in piazza il suo odio verso l’Europa di Bruxelles.
L’ultima annotazione riguarda la durata del governo Meloni. Nel centrosinistra in crisi si preferisce pensare che la parabola meloniana sarà rapida, appena pochi mesi. Possibile, ma improbabile. È vero che il centrodestra è attraversato da una profonda frattura che riguarda il rapporto tra l’anziano fondatore e il partito, FdI, titolare del 26 per cento dei voti. Il problema è che Berlusconi non possiede una leva per rendere efficaci i suoi ultimatum, qualcuno direbbe i suoi ricatti. Dovrebbe proporsi come partner del centrosinistra, il che sarebbe sorprendente per molti, sebbene non per tutti. Peraltro la sera di giovedì egli ha lanciato un’accusa a mezza bocca: i voti decisivi per La Russa sarebbero stati organizzati da Renzi. In serata Bersani ha ripreso la battuta, citando Berlusconi. Questi ha dunque mandato un messaggio, da sinistra c’è chi lo ha raccolto. Una convergenza in base al principio che il nemico del mio nemico è mio amico.