Corriere della Sera, 15 ottobre 2022
Il record di Ganna
Alle 21.01 di ieri, cavalcando una bici specialissima ma pur sempre telaio, manubrio e due ruote a propulsione umana, un ciclista ha sbriciolato per la prima volta il muro dei quattro minuti nei 4.000 metri dell’inseguimento individuale su pista. Significa oltre 60 all’ora di media, partendo da fermo e spingendo un rapporto da 10 metri a pedalata che a girare la pedivella a mano ci vogliono le braccia di un culturista. Il paragone con il muro dei 4’ sul miglio sfondato, correndo, da Roger Bannister nel 1954 non è sacrilego.
Quell’essere umano è Filippo Ganna, il suo 3’59”636 oltre che nuovo primato del mondo (a scendere sotto i 4’ c’era riuscito l’americano Lambie, ma in un test e con il vantaggio enorme dei 2000 metri di quota) gli vale il quinto titolo mondiale. Nessuno c’era mai arrivato prima dai tempi di Peters e Coppi che inaugurarono la regina delle discipline su pista nel 1946.
Soltanto sabato scorso Ganna aveva portato a livelli stellari il record dell’Ora, coprendo 56,792 chilometri sulla pista svizzera di Grenchen: è come – le parole sono di Filippo – se nella stessa edizione dei Mondiali di atletica qualcuno vincesse gli 800 metri e la maratona, acido lattico puro e resistenza estrema.
Ieri nella finalissima Ganna ha avuto un avversario di eccezione, il gigante friulano Jonathan Milan, arrivato allo spareggio con una qualificazione straordinaria. Milan, un Ganna più grosso, più potente e più irruento, è uscito come un missile dai blocchi di partenza. Mai si erano visti un primo giro da 20”9 e un primo chilometro da 66”12. A quel punto Filippo, più razionale e penalizzato in avvio da una bici-razzo difficilissima da lanciare, aveva un secondo e mezzo di ritardo. Poi il piemontese ha ridotto il distacco agganciando il compagno di allenamento dopo 2500 metri per prendere il volo verso record e titolo.
Dietro a una prestazione disumana, un retroscena rivela la sensibilità e l’umanità del ciclista più veloce del mondo. «Alle 10 del mattino, prima ancora di scendere in pista per le qualifiche – racconta Pippo – volevo fare le valigie e andare di corsa a casa. Ero in crisi nera, stanco e demotivato. Se sono rimasto a Parigi è merito dei miei compagni di squadra e di allenamento che mi hanno fatto coraggio e trascinato in pista quasi di forza. Superata la crisi, tutto il resto è venuto naturale».
In Ganna, di colpo, era affiorata la fatica dei 10 mila chilometri totalizzati in gare su strada da febbraio a settembre, dello sforzo disumano di un Tour de France dove dopo aver dato tutto per i capitani della sua Ineos fin dal primo metro si doveva poi trascinare al traguardo superando montagne su montagne. Ma anche delle cronometro dove tutti si aspettano vittorie seriali, della pista di cui è il Re, di un ruolo di salvatore della patria ciclistica che sta diventando un incubo.
La doppia impresa dell’ultima settimana ha fatto capire, se ce ne fosse bisogno, quale motore, quale testa, quale cuore abbia questo ragazzone che non sa dire mai di no, che soffre fin troppo ogni controprestazione (che poi al massimo è un secondo o un terzo posto) e che quando si vuole isolare monta la bici e i rulli in funivia e resta dieci giorni su un cucuzzolo delle Alpi piemontesi. Pippo va celebrato, Pippo va anche e sopratutto rispettato.