Corriere della Sera, 15 ottobre 2022
Intervista a Roberto Maroni
Milano Le coincidenze, a volte. C’è un ministro dell’Interno, nato a Varese, che si chiama Roberto Macchi, detto Bobo. Ama Otis Redding, suona il soul e cita Emily Dickinson. In particolare una certa poesia: «Per fare un prato». Questo ministro, «fondatore di un partito populista composto da personaggi vari, ma perlopiù bellicosi» e impegnato «per dieci anni a correggere i toni del suo capo», è il protagonista di una trama ben intessuta che si srotola per quasi 400 pagine, tra hacker e spie. C’entra molto anche il Vaticano, un sale che non guasta mai. È in gioco la cybersicurezza del pianeta e il lettore è preso per mano con un buon ritmo. Titolo: «Il Viminale esploderà» (Mursia editore), autori Roberto Maroni e Carlo Brambilla. Tutta fiction, ma ogni riferimento all’ex ministro dell’Interno è puramente voluto.
Maroni, diciamo che il Viminale scotta sul serio ora che bisogna formare il governo. Lei che su quella poltrona si è seduto due volte (senza contare l’incarico che ha avuto dalla ministra Lamorgese alla Consulta contro il caporalato in agricoltura), a chi affiderebbe l’ambita casella?
«Al Viminale deve andare un prefetto, non certo Salvini. Io vorrei che il prefetto fosse Matteo Piantedosi, perché è un uomo di valore, è stato capo di gabinetto della ministra Lamorgese e ha passato indenne tutte le indagini della magistratura».
Nella sua rubrica sul «Foglio», Barbari foglianti, ha scritto: «Un congresso straordinario della Lega ci vuole. Io saprei chi eleggere». Ce lo fa questo nome?
«Io non faccio nomi, però il suo profilo ce l’ho ben chiaro: deve essere quello di un moderato, competente e con grande passione. E poi deve stare alla larga da ogni cerchio magico e ascoltare di più i veri militanti».
Giorgetti, Zaia, Fedriga: chi le è più affine?
«Tutti e tre, perché sono competenti. Hanno dimostrato di essere capaci nella gestione dei problemi al ministero e sul territorio. E poi pensano prima al fare che al comunicare».
Uno dei libri che cita spesso è «Lettera sulla felicità» di Epicuro. A Salvini che lettura consiglierebbe?
«A Salvini consiglierei un libro di Miglio, Come cambiare. Le mie riforme per la nuova Italia, perché Miglio è stato il padre del federalismo e non solo. Mi ricordo quando non fu scelto come ministro delle Riforme costituzionali perché Fini si oppose: Miglio mi invitò a Domaso, sopra il lago di Como, dove mi fece bere un po’ di vino prodotto da lui. Era davvero imbevibile... A Salvini consiglierei anche un libro che ho scritto io: Il mio Nord con sottotitolo Il sogno dei nuovi barbari. Potrebbe imparare qualcosa a proposito della questione settentrionale».
Politicamente parlando lei è nato di sinistra, poi con Bossi è stato leghista. Quindi è diventato uno degli esponenti più moderati di quel partito. Ora che cos’è?
«Sono rimasto un sognatore. La politica di oggi è molto diversa, ma penso che ci voglia una buona dose di passione per fare bene il proprio lavoro. E parlo soprattutto del fare! Molto spesso oggi il fare è messo in secondo piano, pare che importi solo a qualcuno. Per un politico oggi il mestiere è principalmente il comunicare inondando i social, persino TikTok».
L’imminente governo di centrodestra durerà? La partenza non è delle migliori.
«Con Giorgia Meloni durerà a lungo, non andremo a votare prima della fine della legislatura. Ne sono certo, perché la Meloni è capace di reggere la barra e resistere a tutte le... strambate!».
Il suo alter ego Roberto Macchi ricorda nel libro che «per dieci anni ha dovuto correggere» il suo capo. Ha mai fatto davvero pace con Bossi?
«Con Bossi non abbiamo avuto bisogno di “fare pace”, perché non c’è mai stata una guerra. Io con lui andavo d’accordo, anche se spesso dovevo convincerlo che era giusta la mia linea e non la sua. Parlo di Bossi fino al 2005 quando lui stette male e cominciò a crearsi il cerchio magico, che filtrò tutti i suoi rapporti e le sue decisioni. Mi ricordo quel che accadde sul pratone di Pontida quando, nel giugno del 2012, durante il governo Monti, qualcuno del cerchio magico (e non certo Bossi) fece togliere in fretta e furia uno striscione messo dai militanti, dove c’era scritto “Maroni presidente del Consiglio”».
I suoi rapporti con Berlusconi sono stati buoni. Dei leader di quella stagione con chi ha intrecciato il legame più importante, sotto il profilo umano?
«È vero, i miei rapporti con il leader di Forza Italia sono sempre stati molto cordiali. Ma si è trattato di rapporti politici. Ho sempre fatto riferimento a lui e a Gianni Letta per le scelte più difficili».
Nel 2021 rinunciò a correre a sindaco di Varese per motivi di salute. Com’è cambiato da quel momento il suo punto di vista sulle cose?
«Non è cambiato molto, certo che la malattia che mi ha colpito è una cosa che non trascuro, facendo tutte le cure necessarie. Ho capito che tra le cose importanti non c’è la politica con la “p” minuscola. Con alcuni militanti ho davvero un rapporto intenso. Sono anche iscritto alla chat della sezione di Varese e questo mi aiuta a restare aggiornato sulle scelte dei consiglieri comunali, visto che siamo all’opposizione».
Lei ha contestato lo slogan della campagna elettorale leghista: «Credo». Che rapporto ha con la religione?
«Il “credo” di Salvini era uno slogan tutto politico, la religione non c’entra nulla. Il mio rapporto con la fede? Sicuramente in momenti difficili alcune certezze vengono meno e ci si ripensa... mi ritorna in mente quando suonavo l’organo in chiesa...».
La sua è stata una carriera politica notevole: due volte ministro dell’Interno, presidente della Lombardia, segretario della Lega in tempi di burrasca. Ha qualcosa da rimproverarsi? O rifarebbe tutto?
«Se mi guardo indietro non ho nulla da rimproverarmi, rifarei tutto. Ho sempre messo la massima dedizione, passione e onestà nel ricoprire tutti gli incarichi al servizio del nostro bel Paese. E ho colto davvero molte soddisfazioni, che mi hanno reso felice».
Perché ora questo libro?
«L’idea mi è venuta dopo aver letto Il presidente è scomparso di Bill Clinton. Un giallo appassionante con tanti colpi di scena, che mi era piaciuto molto. Pur essendo due cose diverse il ministero dell’Interno italiano e la Casa Bianca, centro del potere mondiale, ho voluto impegnarmi per vedere se riuscivo a fare qualcosa di simile partendo dalla mia esperienza di ministro che gira il mondo. Grazie alla collaborazione di Carlo Brambilla, mi sembra di esserci riuscito».